Paolo Genesio
“Scendere dal treno del tempo”
L'immagine di Vienna nella cultura austriaca
dalla Restaurazione all'Annessione
Indice
p. 1: Introduzione
p. 3: Capitolo I Il Biedermeier, barocco della borghesia
p. 6: Capitolo Il Il modernismo, debolezza del liberalismo
p. 9: Capitolo III La Mitteleuropa, tramonto dell'Austria
p. 11: Capitolo IV Il mito asburgico, l'utopia regressiva
p. 14: Epilogo
Introduzione
In uno scritto uscito come presentazione dell'Esposizione Universale di Bruxelles del 1958, Robert Jungk così si esprimeva: "Gli edifici più belli dell'Esposizione non saranno quelli ispirati dal danaro e dalla potenza, bensì quelli in cui si rende avvertibile la presenza dell'uomo". Secondo l'autore de "Gli apprendisti stregoni", tale presenza dell'uomo include la angoscia nei confronti delle possibilità di progresso civilizzante dall'uomo stesso create: "Se riflettiamo, dobbiamo constatare che l'umanità non è mai stata come oggi in possesso delle chiavi del suo futuro, Ma, al tempo stesso, avvertiamo una certa angoscia, e questa angoscia è del tutto giustificata".
Nel 1851 si era inaugurata a Londra la prima Esposizione Universale, con la solenne intenzione di mostra‑re visibilmente il "progresso dell'umanità attraverso le macchine, le invenzioni, le apparecchiature dell'evoluzione scientifica e tecnica. A Parigi nel 1855, si erano introdotte nell'Esposizione la pittura e la scultura dell'ultimo secolo: il progresso era il principio dell'epoca anche nel campo dello spirito. Ma già alla fine del XIX secolo il pessimismo culturale era divenuto dominante a Parigi come a Londra e a Vienna come a Berlino, esprimeva, la decadenza della modernità come equilibrio che essa aveva assicurato fra vita pubblica e vita privata. "La contrapposizione fra individuo e ordinamento sociale fra Piacere e legge ‑ ha scritto Alain Touraine ‑ fu affermata anzitutto da Nietzsche e da Freud. La razionalizzazione della società industriale apparve ai maggiori sociologi, come Durkheim e Weber, carica di pericoli che di speranze".
Il XX secolo ha assistìto all'affermarsi della demodernizzazione intesa come rottura dei legami che uniscono la libertà personale e l'efficacia collettiva; quella gestione del dualisno fra produzione razionalizzata e libertà interiore del Soggetto umano mediante l 'idea di società nazionale che la modernizzazione garantiva, era divenuta oramai impossibile.
Se un'immagine oggi balza alla mente è quella della disgregazione delle città. L'idea stessa di città è stata a lungo indissociabile da quella di cittadinanza e di divisione del lavoro. La città era luogo di produzione, di scambio e di socializzazione. Aristotele nella sua "Politica" aveva affermato: "La città non è una comunità solo per il luogo o solo per difendersi da aggressioni reciproche o per agevolare gli scambi commerciali. Tutto questo è certo necessario che ci sia, perché esista la città; però, anche se una volta dato tutto ciò, la città ancora non esiste. La città infatti è una comunità di case e stirpi nel viver bene, al fine di una vita compiuta e indipendente". Di qui era derivato tutto ciò che poi, in campo politico e giuridico, ha preso il nome di libertà, diritto umano, società umana nel senso di cittadinanza dell'uomo e con la finalità della felicità e del benessere universale.
La polis con il suo ordinamento politico basato sulla libertà e sulla sua realizzazione, veniva esplicitamente posta in relazione alla natura dell'uomo come suo fondamento: "Risulta perciò, argomentava sempre Aristotele, che la città rientra tra le cose che esistono per natura, e, che l'uomo è per natura quell’essere vivente che è legato alla città". Così la città si rapporta a tutte le altre forme di vita comunitaria "come il fine a cui tutti tendono". Un ente che per poter essere, non dipenda dal legame con essa, è quindi o più che uomo, ossia un Dio, oppure meno che uomo, ossia un animale. Per l'uomo invece ne consegue: se quello che giunge alla sua essenza umana nella città è il più nobile degli esseri viventi, allora "l'uomo senza città" è "il più selvaggio" e anzi assomiglia assai poco anche all'animale che si trova "per natura" nel suo ordine.
Nella parte fondativa della "Metafisica" Aristotele si richiamava esplicitamente al volgersi di Socrate alla città: Socrate cercava la "totalità", non più immediatamente come natura, bensi nell'elemento "etico". Anche la "totalità della natura" è presente nella città, e nei suoi ordinamenti del convivere umano. Per questo può imparare il vero solo quell'uomo la cui ragione sia realizzata nella città e sia educata al suo ruolo stabile nello essere. Accade così che la filosofia potrà poi pensare anche lo stesso ordinamento cosmico nei concetti propri della città, definendolo come la "città e cittadinanza universale" in cui l'uomo vive come "cittadino del mondo".
Il nesso unitario tra umanità e città entrava così a far parte integrante della tradizione spirituale europea. Agostino parlava della "cittadinanza dell'uomo" nella "De civitate Dei". Nella lingua tedesca stadt (città) è connesso con stand (status, condizione ruolo) e con gli ordinamenti in cui l'uomo è nel suo ruolo civile e da cui è posto in grado di sussistere in modo stabile. Lungo il corso dei secoli, pur attraverso modificazioni e trasformazioni, e talvolta solo in lontani riflessi, è p bile sempre riconoscere le tracce della tradizione al cui inizio stanno il volgersi di Socrate alla città e, come ricapitolazione complessiva, la dottrina aristotelica dello uomo come l'essere legato alla città".
"Compito della memoria storica non è però solamente quello di limitarsi al problema di come son andate le cose ‑‑ ha scritto Joachim Ritter ‑‑ ma ha sempre anche l'incombenza di conservare e di restituire al presente ciò di cui esso ha bisogno per poter comprendere ciò che esso è". La società moderna salutata da Hegel con "entusiasmo" come realizzazione universale della ragione e della libertà, ha preso il suo corso: ha lasciato l'Europa, il terreno della vecchia storia universale. ed è diventata la società di tutta l'umanità, inglobando tutta la terra. Il principio dell'identità tra umanità e società ha mostrato la sua verità. La società moderna e la sua civilizzazione (la scienza, la tecnica, il dominio della natura attraverso la produzione razionale e il lavoro sociale, la connessa forma di organizzazione sociale e statale, il diritto, l'educazione il modo di vivere, la grande città) stanno sovvertendo su tutta la terra gli antichi ordinamenti del passato, divenuti ormai storici, separando gli uomini da tali istituzioni e riconducendoli all'uguaglianza del loro costitutivo essere uomini. In questo sovvertimento la società diventa la immane potenza umana capace di realizzare l'uguaglianza dell'uomo, ma insieme operante come "scissione" e "differenza". Il futuro connesso con la sua uguaglianza non ha alcuna continuità rispetto agli ordinamenti storici del passato. L'essere storico e l'essere sociale dell'uomo si separano. Ciò che in sé sussiste congiuntamente nell'esistenza dell'uomo, viene scisso. Il passato storico è nella società senza futuro, la società è senza passato storico. Questa discontinuità che compenetra tutto ciò che rende umano l'essere dell'uomo, è l'inquietudine che sottende tutta la storia dell'Europa moderna, ed è ora diventato il problema di tutti i popoli della terra che si trovano nel processo di modernizzazione; problema difficile da affrontare, coinvolgente i fondamenti dell'esistenza, irrisolto, rischiosamente e minacciosamente aperto.
Bibliografia dell'Introduzione
J. Bury: Storia dell'idea di progresso Milano 1964
A. Touraine: Libertà, uguaglianza, diversità Milano 1098
Z. Bauman: La società dell'incertezza Bologna 1999
J. Ritter: Metafisica e politica Casale Monferrato 1963
A. Giddens: Il mondo che cambia Bologna 2000
Capitolo I Il Biedermeier, barocco della borghesia
"Questa Austria è un piccolo mondo, in cui quello grande fa la sua prova generale”. Con questa considerazione, alla metà del XIX secolo, il poeta tedesco Friedrich Hebbel, oriundo della Germania del Nord e divenuto viennese per adozione. esprimeva uno dei caratteri costitutivi della monarchia asburgica, nonché l'incertezza del futuro che era connessa a tale "prova". Il fattore multinazionale era, difatti, il perno su cui poggiava la monarchia, a patto però che la concordia regnasse fra i vari popoli, docili nell'accettare l'egemonia degli austro‑tedeschi. Il ‘48 vide vacillare e scricchiolare l'intera compagine dell'impero sotto le spinte centrifughe di italiani, magiari, slavi e grandi‑tedeschi. Superata la prova, il nuovo imperatore Francesco Giuseppe ricostruì la capitale ed epicentro della rivoluzione, Vienna, quasi per cancellare ciò che era avvenuto. Dove prima erano le mura della città, egli fece edificare un magnifico viale alberato, la Ringstrasse. Essa diventò il segno distintivo della cultura viennese nella età dell'oro, la cui natura di "conglomerato" derivava dal diverso stile degli edifici che si affacciavano sul Ring: classico per il Parlamento, fiammingo per il Municipio, rinascimentale per i Musei.
L'espressione “età dell'oro di Vienna" evoca però in sé alcuni paradossi. Per lunghi periodi, fra il 1815 e il 1914, Vienna non fu d'oro di quanto il Danubio fosse blu; d'altronde gran parte di quello che vi splendeva, non proveniva dalla città, ma dall'impero del quale era capitale. In tutto il corso della storia pochi sono stati i grandi centri culturali che hanno attinto ad un entroterra così ricco e vario o favorito l'intreccio di così numerosi e diversi tipi razziali e culturali. Vienna fu il gran crogiuolo finale, l'archetipo della fusione culturale. I suoi compositori fecero musica mescolando temi ungheresi, cechi, austriaci e zigani; il suo dialetto incorporava parole provenienti dalla stessa varietà di fonti, il teatro attingeva a precursori tedeschi, francesi, italiani e spagnoli; l'architettura, come detto, venne a modellarsi in modo quasi indiscriminato su esempi di tutti i secoli e di tutti gli stili.
Un vero dono nel comporre elementi disparati in un insieme armonico caratterizza la cultura viennese, almeno dal XVII secolo in avanti. I viennesi adattano e sovrappongono gli elementi più diversi per origine e natura fino ad ottenere un nuovo modello. Non fanno esclusioni come gli spagnoli. né imprimono forme e fissano stereotipi come i francesi. Prediligono armonie tenui ed elusive a dicotomie decise e bruschi passaggi. In nome della nostalgia essi coltivano i residui del passato con una naturalezza disarmante e intransigente insieme. Più di ogni altra città, forse, Vienna ha inghirlandato i suoi monumenti d'aneddoto e di irrilevanza.
Gli scrittori viennesi non si stancavano di ripetere che la loro città si trovava su di una linea di confine. Vienna sorge a cavallo di una frontiera geografica e culturale. Il Bosco viennese costituisce il contrafforte più orientale delle Alpi. Vienna si annida nel punto in cui le estreme propaggini delle Alpi incontrano le steppe ungheresi. Il Danubio scorre da nord‑ovest a sud‑est costeggiando queste alture; esso è così intimamente collegato a Vienna nel canto e nella leggenda che molti immaginano che divida la città, come la Senna Parigi o il Tevere Roma. La città si è sviluppata, invece, a sud‑ovest del fiume e solo un canale, scavato intorno al 1600 e il cui corso fu regolato dopo il 1670, taglia in due la sua parte nord‑orientale. In questa zona il Danubio, lungi dall'offrire un porto naturale, presentava un dedalo di corsi d'acqua, paludi e acquitrini, finché appunto, non venne incanalato. La posizione della città è determinata non già dal fiume, ma dal fatto che in questo punto la montagna declina fino al piano che il fiume costeggia. Come accade con tante altre cose a Vienna, a rendere il luogo ideale concorrono elementi quali le colline, il fiume e la pianura, ma nessuno di questi presi singolarmente.
Fin dal 1800 la duplice missione dell'impero, di cui Vienna era la capitale, resistere ai turchi e al protestantesimo, aveva perso la sua ragion d'essere. Il vuoto fu colmato dal compito che l'imperatore Francesco I sì assunse di opporsi alla rivoluzione francese. Per la terza volta l'Austria diventò un baluardo di resistenza, solo che, questa volta, l'avversario aveva il futuro dalla sua. Ben oltre il 1650 i governanti austriaci continuarono a considerare il proprio paese come una salda roccaforte da opporre alla rivoluzione, al laicismo e all'illuminismo. Questa resistenza all'incalzare dei tempi costrinse i viennesi ad elaborare una filosofia del "tirare a campare" trovando nel contempo rifugio nei piaceri estetici, anche se, intanto, un crescente numero di pensatori si dedicava alla causa della modernizzazione. La nascita del liberalismo fra il 1850 e il 1890 parve, per un momento, segnare la definitiva rottura con la tradizione austriaca ad opporsi alla modernità, Purtroppo quegli stessi liberali che lottavano per imprimere allo stato una svolta verso il futuro, si adoperarono per ritardare l'insorgere del sentimento nazionale nei paesi dell'impero, la cui natura letale per la compagine multinazionale egemonizzata dagli Asburgo, si era rivelata appieno nel 1848.
Fino al 1916 anche i massimi pensatori viennesi, il cui potenziale modernizzante era rilevantissimo nei rispettivi ambiti ‑ basti citare Freud, Loos, Wittgenstein, Schonberg, Kraus, Schnitzler, Mahler e Musil ‑ non fecero alcuna dichiarazione programmatica su Vienna e non compirono alcuno sforzo per ovviare alla mancanza di autoconoscenza di questa ultima. La predilezione di Vienna per l'autoincensamento, rispetto alla autoanalisi, rese i suoi cittadini fin troppo inclini ad accettare come un segno dell'umana debolezza quello che altri avrebbero considerato semplice inerzia.
C'è sempre qualcosa di inesatto o di esagerato nella valutazioni fatte dai viennesi su Vienna: errori di prospettiva che non commettono invece, i londinesi scrivendo di Londra o i parigini di Parigi. Che nel descriversi i viennesi cadessero nell'iperbole, sia in senso affermativo che negativo, è confermato dal fatto che la loro città non produsse alcun scrittore che ne inglobasse la qualità, alla maniera che Balzac e Zola fecero per Parigi, Dickens e Thackeray per Londra, Keller per Zurigo e Dostojevsij per Pietroburgo. I sommi eroi culturali di Vienna furono musicisti, piuttosto che scrittori: Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert e i due Strauss rappresentarono il punto più alto della cultura viennese. Ma è molto più difficile che per uno scrittore puntualizzare in qual modo un compositore impersoni dei valori culturali. Se Beethoven o Schubert avessero scritto racconti, invece che sonate e romanzi invece che sinfonie, per i posteri viennesi sarebbe stato più facile individuare il proprio carattere.
Fino alla pubblicazione di "L'uomo senza qualità" di Robert Musil nel 1930, Vienna fu priva di un tale organo di autoconoscenza di cui tedeschi, inglesi e francesi già disponevano per le rispettive capitali. Quindi l’Austria non potè vantare un poeta o autore in cui identificarsi che non sia un musicista come Mozart o forse ancor più Schubert. Ma risultava difficile fondare su di un musicista, soprattutto di questa natura, il senso dell'identità nazionale proprio per l'impossibilità di fissare i contenuti musicali in termini concreti: già la tentazione a far questo svela una debolezza congenita nella comprensione di sé dell'Austria e di Vienna.
Le guerre napoleoniche avevano sconvolto la vita economica europea; la moneta austriaca era stata svalutata cinque volte nel breve arco di venti anni. Anche per questo il Congresso di Vienna fu visto come un ritorno alla pace e alla tranquillità, anche se il prezzo pagato per esse fu l’oppressione. Il periodo successivo al 1815 e fino al 1848 fu chiamato, nel mondo di lingua tedesca, età Biedermeier dal nome di un personaggio inventato dal giornale umoristico "Fogli volanti": l'onesto signor Meier.
Il filisteismo del signor Biedermeier rappresentava, in generale, il tedesco medio del tempo, dalla bonaria onestà piena di rispetto per l'autorità e l'ordine costituito, ritirato in un idillio casalingo fra i suoi mobili comodi, le sue porcellane, le tendine di trina alle finestre ed i vasi di fiori affacciati alle stesse. Eppure per quanto rappresentava l'Austria questa disposizione d'animo (stimmung) sembrava andare oltre il significato di un periodo storico determinato per costituire quasi una categoria spirituale del vecchio mondo asburgico. Si chiamò poi quel tempo Premarzo (Vormarz), l'età precedente il moto del ‘48 ed in fondo, tutta l'ultima storia asburgica fu un vivere nell'attesa di una bufera o di una fine che si poteva solo procrastinare. Questa rinunzia alla partecipazione politica e quell'edonistico rifugiarsi fra i propri amici, le proprie pietanze e i propri libri, con passione di buongustai di effimere cose, furono, nel mondo austriaco, non già un letargo fervido di futuro agire, come in Germania, ma lo stile di vita più naturalmente rispondente alle contraddittorie basi su cui si reggeva l'impero.
Nel 1843 il regista della Restaurazione, il principe Klemens von Metternich, che nel 1821 aveva ordinato alla propria polizia di espellere da Milano Stendhal che ancora troppo vibrava di esaltazioni napoleoniche, decideva di scegliere Adalbert Stifter, suddito fedele, come precettore del proprio figlio. L'anno successivo lo scrittore dello "strapaese austriaco" pubblicava le "Storie della vecchia Vienna", il cui primo capitolo si intitola "Panorami e considerazioni dal Campanile di S. Stefano". Così si apre il capitolo:
"Osserva anzitutto, caro lettore, questo grandioso scenario che si apre ai tuoi occhi: è un immenso mare di case, che spumeggia e palpita di vita, così variopinto e lieto da sembrare quasi effimero e svanire in un soffio; e su tutto pare sovrasti la dea della gioia, sì proprio lei, poiché coloro che qui a migliaia affluiscono, lavorano, faticano o si divertono, pronti a cogliere con mirabile abilità i frutti che la vita offre loro a ogni istante, non si rendono conto di essere solamente lettere, con cui la musa compone quel terribile dramma che è la storia del mondo; non si accorgono che qui pulsa il cuore dì una grande monarchia che, insieme ad altri popoli, contribuisce a determinare le sorti della terra e che da questo cuore dipendono il vigore e la salute di tutti gli altri membri; essi non lo sanno e non possono saperlo. Se il carattere e gli sforzi di ogni singolo formano lo spirito di un'epoca, è il continuo generare di imprese e di azioni a conferire un determinato volto al secolo e forse al millennio; non il singolo, quindi, dà l'impronta, ma tutti quanti insieme, anche se molti, poi, rimangono in disparte a guardare. Come il sangue, balsamo vermiglio che scorre vigoroso nelle vene di tutto il corpo, è ignaro dì essere l'artefice di questo meraviglioso essere, così il popolo che affluisce esultante e allegro e svolge gioioso le proprie mansioni, costruisce infaticabile e solerte, di padre in figlio, di generazione in generazione qualcosa che non conosce, secondo un piano a lui ignoto; tutti lavorano instancabili e se uno cade ecco che un altro, martello e cazzuola in mano, prende il suo posto e si mette all'opera, e quando la costruzione sarà terminata i presenti esulteranno, e uno racconterà ad altri come si è giunti a tutto ciò, anche se non sa bene come. Occhi competenti dirigeranno i lavori, ma anch'essi avranno soltanto una visione parziale dei fatti, poiché finora nessuno ha mai veduto colui che dispone e vigila su tutto".
Alla vigilia del 1848 la filosofia del "piccolo uomo", di cui Stifter era stato il grande illustratore, trova uno spessore poetico maggiore nel racconto di Franz Grillparzer "Il povero musicante". Questa storia di rinunzia e di sacrificio di un vecchio che si guadagna da vivere suonando orribilmente il violino in ricordo dell'amore della sua vita, si apre con una descrizione gioiosa di Vienna, quasi a fare da contraltare alla natura della vicenda:
"A Vienna la domenica dopo il plenilunio di luglio è, ogni anno, insieme al giorno seguente, una vera e propria festa popolare, se mai una festa ha meritato questo nome. Il popolo la frequenta e la dà esso stesso; e vi compaiono persone di ceto più elevato, possono farlo soltanto in quanto fanno parte del popolo. Non vi è alcun modo di segregarsi; per lo meno non c'era fino ad alcuni anni or sono.
In quel giorno la Brigittenau collegata in un'ininterrotta catena di divertimenti con l'Augarten, la Leopoldstadt e il Prater, festeggia la sua sagra. Da un giorno dì S. Brigida all'altro il popolo lavoratore conta i suoi lieti giorni. Lungamente attesi arrivano finalmente i Saturnali.
Sorge allora un gran tumulto nella città tranquilla e bonaria. Una onda di popoli riempie le strade. Rumore di passi, mormorio di dialoghi tra i quali spicca, ogni tanto, un grido acuto. Le differenze sociali sono scomparse, borghesi e soldati partecipano all'agitazione. Alle porte della città l'affollamento aumenta. Presa, perduta e ripresa, la uscita è finalmente conquistata. Ma il ponte sul Danubio presenta nuove difficoltà. Infine anche qui vittoriose, due correnti, il vecchio Danubio e l'ondata ancor più gonfia del popolo passano incrociandosi l'uno sopra l'altra, il Danubio lungo il suo antico letto, e la corrente del popolo verso le strettoie del ponte, si riversano come un lago largo e mugghiante e sommergono ogni cosa come un'inondazione. Un forestiero a quegli indizi potrebbe sentirsi a disagio. E' invece soltanto la sommossa della gioia, lo scatenarsi dell'allegria".
L'anno dopo la pubblicazione de "Il povero suonatore'', vi fu una sommossa, ma questa volta di natura politica, anche se si trattò di una “rivoluzione in un bicchier d'acqua" e Vienna fu riconquistata, armi alla mano, dalle truppe di Windischgratz e di Jellacic che sottoposero la città al saccheggio. Il nuovo imperatore Francesco Giuseppe promulgò nel 1861 la Costituzione Imperiale nella quale si garantivano, almeno formalmente, la libertà di stampa, di parola, di riunione e la uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Si salvaguardava l'uso delle lingue nazionali anche nelle pubbliche istituzioni. D'altro canto l'imperatore continuava a nominare o a destituire ministri, assegnare titoli nobiliari e convocare o sciogliere assemblee legislative; ma il ministero formato dal primo ministro e da un certo numero di capi di dipartimento, doveva render conto del proprio operato solo al parlamento. Lo sviluppo economico del paese veniva, frattanto gestito dalla borghesia.
Verso la metà del secolo Vienna contava 410.947 abitanti e 15.340 di guarnigione, che si raddoppiarono nell'arco di trent'anni. I generi alimentari erano a buon mercato, ma le case e il riscaldamento costavano moltissimo, finché non furono abbattute le mura e realizzato il piano di ampliamento della città. Se gli edifici del centro erano stati il simbolo della potenza della casa regnante e della classe nobiliare, nel nuovo sviluppo della Ringstrasse si celebrò la vittoria del diritto costituzionale sulla potenza imperiale. Gli “edifici dello splendore" non furono un'esclusiva dell'aristocrazia, ma patrimonio comune del terzo stato. D'altronde i larghi viali rendevano ormai impossibile qualsiasi tipo di insurrezione basata sulle barricate che l'artiglieria avrebbe facilmente distrutto.
Una nota di rimpianto della Vienna ormai scomparsa risuona nella novella “Il sottotenente Burda" di Ferdinand von Saar, storia di un modesto ufficiale che affida ad un immaginario amore con una donna dell'alta nobiltà le sue ambizioni di elevazione sociale, sfociate, alla fine, in un duello mortale. L'autore, già soldato durante la guerra franco‑austriaca del 1859, una volta lasciate le armi, si dedicò alla letteratura mettendo in scena, nelle sue novelle austriache, l'opera corroditrice del tempo e il tramonto di un'epoca. Von Saar difatti, che, come Stifter, concluse la sua esistenza col suicidio, usava dire di sé alle giovani generazioni: "Io sono stato semplicemente il passaggio". Lo scenario viennese dei patetici; tentativi di Burda di mettersi in mostra è così delineato:
"Allora Vienna mostrava intatte le sue caratteristiche di un tempo. Esistevano antiche porte e i ponti sui fossati intorno alla città; i viali di castagni e di tigli sul bastione conducevano ai sobborghi; e se oggigiorno il centro appare stretto dal Ring come da una luccicante cintura di gioielli, così circondato dalle mura del bastione, una volta somigliava a un piccolo scrigno in cui fossero raccolte la maggior parte delle cose preziose. Il traffico pubblico era più semplice, direi quasi più intimo di ora. I diversi uffici, come gli svariati luoghi di svago e di piacere, non erano troppo distanti gli uni dagli altri; e così ognuno di noi, familiarizzando presto con le varie situazioni, a modo suo si ambientò. Chi era più indolente evitava volentieri incontri fuori servizio con i superiori, cercava di non passare per strade e piazze della città e trascorreva il suo tempo libero nelle vicinanze della caserma. Altri invece, per la maggior parte capitani più anziani con vocazioni gastronomiche fortemente sviluppate, amavano frequentare osterie e ristoranti che godevano di una particolare fama, e vi si trattenevano in genere fino a notte fonda, per tornare poi a casa in uno stato d'animo decisamente autonomo. Infine c'erano alcuni che non conoscevano divertimento migliore di camminare su. e giù per il Graben e il Kohlmarkt, vestiti il più accuratamente possibile; luoghi, questi dove ci si poteva trovare insieme al gran mondo senza molta spesa, per osservare gli altri ed essere osservati al tempo stesso notati. Che a questa cerchia appartenesse anche Burda è cosa ovvia; la sua impeccabile condotta era veramente ammirevole. Quando con atteggiamento noncurante si tratteneva davanti al famoso caffè Daum ed esaminava i passanti con sguardo freddo o intraprendeva con passo misurato il suo giro sul bastione era davvero il prototipo dell'ufficiale elegante. Nessun altro riusciva a prender posto con maggior classe nel salone invernale del Volksgarten, mentre l'orchestra dei fratelli Strauss faceva ascoltare melodie serie e gaie e nella platea dei due teatri di corte egli sapeva sempre conquistarci un pilastro, appoggiato al quale lasciava vagare il suo sguardo verso i palchi, cioè verso gli ospiti del gentil sesso".
Bibliografia del Capitolo I
W, Johnston: Vienna, Vienna... Milano 1981
D.. J. Olsen: La città come opera d'arte Milano 1987
M., Freschi: La Vienna di fine secolo Roma 1997
V. L. Tapiè: Monarchia e popoli del Danubio Torino 1969
A. J., P. Taylor: La monarchi asburgica Milano 1965
C. Magris: Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna Torino 1963
A. Stifter: Storie della vecchia Vienna Trento 1990
F. von Saar: Novelle austriache Roma 1965
F. Grillparzer: Il povero musicante Milano 1979
Capitolo II Il modernismo, debolezza del liberalismo
Non diversamente che in quasi tutti gli stati europei, il liberaliamo austriaco aveva conosciuto la sua stagione eroica in coincidenza della lotta all'aristocrazia e all'assolutismo dell'età barocca. Quest'ultimo ebbe fine con la sorprendente sconfitta subita nel 1848. I liberali del tutto impreparati andarono al potere e, negli anni sessanta, diedero vita, quasi in mancanza d'altro, ad un regime costituzionale. In effetti, a portare i liberali alla guida dello stato, non era stata la loro coesione interna, bensì la disfatta dell'Antico Regime ad opera dei nemici esterni. In particolare la perdita, tra il 1859 e il 1866 del Lombardo‑Veneto rappresentò il recidersi dell'"ultimo legame con l'idea imperiale". Queste circostanze implicarono una spartizione del potere con l'aristocrazia e con la burocrazia imperiale. Perfino durante il ventennio del loro perdurante governo, 1860‑80, la base sociale liberale rimane debole, limitata com'era, alla media borghesia dì ceppo germanico e, dopo il Compromesso Austro‑Ungarico del 1867, magiaro e ai rispettivi ebrei assimilati per lo più residenti nei centri urbani. Identificandosi sempre pìù con il capitalismo, essi riuscirono a conservare il potere grazie allo espediente antidemocratico del diritto di voto limitato.
Ben presto altri gruppi sociali, i lavoratori e gli artigiani inurbati, e i cittadini di stirpe slava, insorsero reclamando la loro partecipazione alla vita politica. Negli anni ottanta costoro fondarono vari partiti di massa ‑socialisti, cristiano‑sociali, pangermanisti di matrice antisemita, nazionalisti slavi ‑ decisi a sfidare l'egemonia liberale. Il loro successo fu rapido, Nel 1895 il baluardo liberale, ossia la stessa Vienna fu inghiottito da un'ondata di marea cristiano‑sociale. L'imperatore Francesco Giuseppe, col sostegno della gerarchia cattolica, rifiutò di sancire l'elezione di Karl Lueger, mentre il liberale Sigmund Freud fumava un sigaro per celebrare il gesto dell'autocratico difensore degli ebrei. Tuttavia, due anni più tardi, la marea era ormai incontenibile.
Lo stesso imperatore, inchinandosi al volere dell'elettorato, ratificava l'elezione di Lueger e sarà quest’aria politica che respirerà il giovane Hitler. Difatti a Vienna ebbe inizio un decennio di governo demagogico cristiano‑sociale che vide associato tutto ciò che implicava l'anatema sul liberalismo classico, ossia l'antisemitismo, il clericalismo e il socialismo municipale. Anche a livello internazionale, a partire dal 1900 i liberali perdettero ogni potere politico parlamentare, nè lo avrebbero recuperato mai più. Erano stati schiacciati dai moderni movimenti di massa: cristiani, socialisti, nazionalisti ed antisemiti.
Gli intellettuali degli anni novanta erano figli della minacciata cultura liberale e, sensibili com'erano, ai presagi di sfacelo politico e sociale, rappresentarono il terreno di coltura più propizio del carattere bifronte della modernità e della natura astorica del modernismo nella Vienna di fine secolo.
La prima tematica è definibile con le parole di Marshall Berman secondo cui l'essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che al contempo minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo. Si tratta, comunque, di un'unità paradossale, di un'unità della separatezza, che ci catapulta in un vortice di disgregazione e di rinnovamento perpetui, di conflitto e contraddizione, d'angoscia e ambiguità". La seconda, invece, è chiaribile con le parole di Carl Schorske: “L' architettura, la musica, la filosofia, la scienza moderna trovano la loro definizione, non al di fuori del passato, e nemmeno contro il passato, ma in condizioni di indipendenza dal passato stesso".
La modernità, d'altronde, venne anche presentata, complice l'origine ebraica di moltissimi intellettuali austriaci, come frutto esclusivo di un complotto giudaico rivolto, per l'appunto, a inaridire o recidere le radici spirituali dei popoli e della civiltà cristiani, grazie alla prospettiva di una pervadente visione del mondo materialista e delle dottrine che da essa prendono le mosse quali il liberalismo e il marxismo.
In questo modo, la percezione, da lungo tempo propria dell'alta cultura europea, già ricordata nell'introduzione, di vivere entro una grande crisi di valori, si avviava, grazie alla nuova versione dell'antisemitismo. a trasformarsi, già nella Vienna di fine secolo, nel presupposto incendiario di future, inedite mobilitazioni politiche che avrebbero profondamente segnato il nuovo secolo e che traspariranno nei romanzi di Alexander Lernet‑Holenia. Il nuovo antisemitismo costituiva il primo, e forse maggiore esempio di trasferimento sul terreno politico ‑ ha scritto Ernesto Galli della Loggia ‑ di quel disagio psicologico‑culturale indotto dalla modernità in larghe fasce della popolazione e ormai identificato in sostanza con una problematica etico‑spirituale.
La posizione dell'alta borghesia liberale, nella quale numerosi erano gli elementi di origine semita, divenne quindi, alla fine del secolo, paradossale. Se da un lato il suo benessere economico aumentava, scemava, per un altro lato, la sua autorità in campo politico. Il ruolo primario che svolgeva nella vita professionale e culturale dell'impero rimase sostanzialmente inalterato, ma sul piano politico, come già accennato, la classe liberale fu ridotta all'impotenza. Ancor più dell'imperatore che serviva con tanta lealtà, l'alta borghesia viennese continuò a regnare, ma smise di governare. Trionfavano, curiosamente commisti, un senso di impotenza e un sentimento di superiorità; cosicchè i prodotti del cenacolo letterario della Giovane Vienna si rivelano per un ambiguo composto formato da questi due elementi.
Ovviamente tale movimento estetico non era un prodotto prettamente austriaco e, i suoi protagonisti austriaci, sia in campo letterario che pittorico, trassero ispirazione dai predecessori appartenenti alla area culturale europeo‑occidentale, soprattutto inglesi, francesi e belgi, Gli austriaci non tardarono a far propria la languida sensitività di un Baudelaire, ma non pervennero né alla bruciante, autodilacerante sensualità dei decadenti francesi. né alla crudele bellezza dello scenario urbano elargito dalla loro visione. Per parte loro, i preraffaelliti inglesi ispirarono all'Austria di fine secolo il movimento dell'Art Nouveau ( che assunse la denominazione di secessione), senza peraltro che i loro discepoli austriaci ne assimilassero la spiritualità pseudomedievale e il forte impulso riformistico sociale come testimoniato da "Notizie da nessun luogo" di William Morris.
In altre parole gli esteti austriaci non erano, né alienati dalla loro società al pari dei loro compagni spirituali francesi, né impegnati a svolgervi un ruolo preciso come quelli inglesi. Né “impegnati" né "disimpegnati", i letterati austriaci non erano alienati dalla classe cui appartenevano, bensì lo erano in seno ad essa, da una società che frustrava le loro speranze, rifiutava i loro valori e cominciava, in molti di loro, a stigmatizzare l'origine semita.
Prova implicita di questo stato di cose la si ha nell'ambientazione particolare, il parco di Schonbrunn, che due dei protagonisti di spicco della Giovane Vienna ‑ Hugo von Hofmannsthal e Richard Beer‑Hofmann ‑ scelgono per situare rispettivamente, una pagina di diario e la scena culminante del proprio romanzo. La rarefazione dell'ambiente riflette la situazione psico‑culturale nella quale erano immersi i due autori.
Alla data del 23‑IV‑1894 si legge nel "Libro degli amici" di Hofmannsthal, il quale otto anni dopo esprimerà nella "Lettere di lord Chandos l'impossibilità di attingere alla realtà esterna, questa nota di diario perfettamente consonante con quanto detto sopra:
"Con Poldy a Schonbrunn sull'imbrunire. Due viali che diramano a stella: quello di sinistra quasi buio, sulle nuvole cupe un pallido arco baleno; in quello di destra un chiaro cielo azzurro metallico, appena verde, con nuvole d'argento opaco e sulle vette il sole purpureo al tramonto, In questi due viali due epoche diverse. due diversi destini.
Poi in un'altra parte del giardino: canto di uccelli quasi ininterrotto; pini neri che guardati a lungo incominciano a vivere.
Noi crediamo di sentire l'anima di questa Vienna, che forse vibra in noi per l'ultima volta; eravamo di una trionfale tristezza".
"La morte di Georg" di Beer‑Hofmann uscì nel 1900 , la sua trama assai esile per non dire quasi inesistente ruota attorno alla morte improvvisa di un amico del protagonista Paul, nel fiore degli anni e alle soglie di una carriera brillante, Questo evento spezza crudelmente il vacuo estetismo del sopravvissuto che medita nello sfondo autunnale del parco imperiale una via d'uscita che sembra essergli suggerita dallo stesso ambiente come sospeso per un incantesimo. L'autore che, due anni prima della pubblicazione, aveva scritto ad Hofmannsthal circa la propria profonda l'aspirazione a liberarsi dal dover narrare le cose, lasciando finalmente che cose e persone abbiano l'aria di esprimersi da sole", così descrive la scena:
"Varcato il cancello dell'inferriata, Paul s'inoltrò sulla sabbia chiara e pareggiata dello spiazzo, Non c'era nessuno, a parte uno dei gendarmi di palazzo ed il piantone. Sui prati del parterre davanti al castello c'erano dei giardinieri, inginocchiati a disporre piote di torba di un verdegiallo sbiadito. Nelle aiuole spoglie la terra nera e soffice, era smossa. Il vento aveva spinto mucchi di foglie brune e marce contro i piedistalli delle statue dì arenaria. Da un qualche punto risonarono delle voci.. Paul sollevò gli occhi; lungo il pendio a prato un uomo veniva giù dalla Gloriette, tenendo per mano due bambini. Il porticato, aperto e arioso, sembrava smaterializzato e appiattito contro il cielo, che s'innalzava alle sua spalle in un grigiore privo di nubi”.
L'ambivalenza di segno contrario che gli autori sopra citati esprimono troverà sintesi compiuta e celebre nella "gaia Apocalisse", espressione con la quale Hermann Broch descriverà l'atmosfera di Vienna alla vigilia dello scoppio della Grande guerra. Di essa sarà cantore insuperato, il commediografo e scrittore Arthur SchnitzIer il cui racconto "Il sottotenente Gustl", avviò nella letteratura austriaca la tecnica narrativa del monologo interiore che, unitamente all'impiego di tecniche psicanalitiche autonome rispetto a quelle teorizzate da Freud, spiegano la reticenza di questo ultimo ad incontrarlo nel timore di trovarsi di fronte al proprio "doppio". In questo racconto uscito nel 1900, fa la sua comparsa l'"uomo psicologico” nei panni di un ufficiale assai vacuo che, dopo un alterco all'uscita del teatro con un macellaio che minaccia di malmenarlo in pubblico, medita nella notte, come unica via d'uscita quella di suicidarsi per evitare il disonore, senza però riuscire successivamente a mettere in atto il proposito.. La morte provvidenziale in nottata dell'offensore sistemerà poi le cose, Questo racconto costò a Schnitzler il grado di ufficiale‑medico dì complemento perchè l'esercito si sentì diffamato dalla vicenda. Questi i pensieri di Gustl prima del suicidio che non avverrà:
"Non c'è male. ora sono addirittura al Prater... in piena notte... chi l'avrebbe pensato stamattina che stanotte sarei andato a passeggio al Prater... Che sarà quella guardia laggiù? ... Bah, proseguiamo ... è bello qui... Di cenare ormai non se ne parla più, e neppure di andare al caffè; l'aria è piacevole e c'è molta pace... molta ... Vero è che di pace ne avrò ben presto tanta, più di quanto ne possa desiderare. Ah! Ah!, ma sono completamente senza fiato ... ho corso come un pazzo ... più piano, più piano, Gustl, non c'è fretta, non hai proprio più nulla da fare, proprio nulla, assolutamente nulla! E' solo un impressione o ho dei brividi di freddo? Sarà certo la eccitazione ... e poi non ho mangiato nulla ... Cos'è che ha un odore così singolare?... non può mica essere cominciata la fioritura? ... Quanti ne abbiamo oggi, quattro aprile... sicuro, ha piovuto molto in questi ultimi giorni ... ma gli alberi sono ancora quasi completamente spogli ... ed è scuro, uh! ci sarebbe quasi da aver paura ... Quella fu veramente l'unica volta nella mia vita che ebbi paura da ragazzo, allora nel bosco... ma non era così piccolo.*@ aveva quattordici o quindici anni ... Quanto tempo èpassato da allora? Nove anni... sicuro, a diciott'anni ero aspirante, a venti sottotenente...e l'anno prossimo sarò ... Che sarò l'anno prossimo? Che significa poi l'anno prossimo? Che significa: la settimana prossima? Che significa: dopodomani? Che? Mi battono i denti? Oh! Oh! Bel, lasciamoli battere un pochino... Signor tenente, lei ora è solo, non ha bisogno di far la commedia dinanzi a nessuno... è dura, è dura..."
Autore per eccellenza di feuilletons, Peter Altenberg poeta dei caffè viennesi, uno dei quali il Central lo ricorda ancora con un manichino nello ingresso, sapeva più di ogni altro trasformare l'analisi obbiettiva della realtà in una palestra personale ove coltivare emozioni del tutto soggettive. E' la "dolce fanciulla" l'eroina di questo "pezzo" tratto da "Ciò che mi porta il giorno" del 1901:
“La grande altalena del Prater: sono queste le ebrezze della vostra vita, ragazze del popolo! Tutto è capovolto e messo sottosopra! E durante la discesa strillate per la paura e l'eccitazione! Qui dimenticate che fra poco dovete pagare l'affitto e che in ogni momento potreste restare incinta ed essere abbandonate! Qui vivete le vostre emozioni di viaggio per mare, mal di mare per dieci centesimi! E dopo nei prati, negli ampi, oscuri prati! Fischia, Giorgio, se vedi arrivare la polizia!"
L'annessione della Bosnia‑Erzegovina, fino ad allora sotto il potere nominale dell'Impero Ottomano, costituì una decisione fatale per l'AustriaUngheria. Infatti il suo desiderio di indennizzarsi in quell'area delle perdite subite nella seconda metà dell'800 in Italia e Germania, trascinò inevi tabilmente la compagine asburgica verso il "gorgo balcanico" su una rotta di collisione con la Russia protettrice della Serbia. L'assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo il 28 giugno del 1914, fu l'esito finale di tale politica da cui la guerra seguì come una conseguenza naturale ed infine dalla dissoluzione della compagine danubiana.
Lo scrittore e giornalista Karl Kraus, che per gran parte della sua vita redasse e pubblicò una rivista "La Fiaccola", concepì nel 1915 un'opera teatrale quasi irrappresentabile, dato che quando fu completata nel 1926, era costituita di cinque atti e cinquantacinque scene. Il suo titolo era assai sintomatico: "Gli ultimi giorni dell'umanità". Nella premessa egli giustificava così tale opera nella sua intenzione etico‑politica: "I contemporanei, i quali hanno permesso che le cose qui descritte accadessero, pospongono il diritto di ridere al dovere di piangere. I fatti più inverosimili qui riportati sono accaduti veramente, ho dipinto solo ciò che altri si sono limitati a fare. I più inverosimili discorsi qui tenuti sono stati pronunciati parola per parola; le più crude invenzioni sono citazioni".
La scena prima dell'atto quarto ambientata a Vienna nel fatale 1917 è un esempio significativo:
"(Vienna. Viale del Ring. Angolo di Sirk. Larve e lemuri, Tutti compaiono in gruppi di cinque a braccetto.. Un'allegria immotivata si alterna a un cupo greve silenzio. Un branco di montoni appaiati, fronte a fronte, si fissano l'un l'altro, come legati da un comune segreto. La massa, nella misura in cui si muove, passa tra due ali di borghesi, mutilati, invali di con le teste e le membra scosse da continue convulsioni, di relitti e mostriciattoli di ogni genere, di mendicanti d'ambo i sessi e d'ogni età, di ciechi e veggenti, che contemplano con occhi spenti il variopinto vuoto. Tra questi, figure ricurve che cercano mozziconi di sigaro sul marciapiede.
"UNO Strillone: Edizione straordinaria! ... Schiacciante sconfitta degli italiani! SECONDO Strillone: Edizione straordinaria! La nota americana di Wilson! UN Ufficiale (ad altri tre) Salute Nowotny, salve Pokorny, salute Powolny, oh proprio te... tu che te ne intendi di politica, che ne dici dell'America? SECONDO Ufficiale (con una canna da passeggio) Un pluff! TERZO. Certo... ma sicuro. QUARTO. Proprio quel che penso io ... ieri ho fatto bisboccia..! L'avete vista la vignetta di Schoenpflug? Una forza! PRIMO. Sai, credo che si tratti solo di una réclame americana o roba del genere. QUARTO. Vogliono fare un affare, ecco tutto, lo dice oggi il giornale. Per il loro bisness! TERZO. Se si armano, vedrai, si armano contro la Cina. SECONDO. Macchè, contro il Giappone! TERZO. 0 contro il Giappone, certo. è la stessa cosa, lo sai che li confondo sempre. ,SECONDO. E io dico che è un pluff. Per prima cosa i sommergibili li bloccano*. QUARTO, Sicuro, ora che sono stati anche intensificati. SECONDO. E sai, anche se venissero da queste parti ... per quelle loro divisioni basta un nostro reggimento, ridendo e scherzando, caro mio... zac, ed è fatta.(…)”
Bibliografia del Capitolo Il
C. Schorske: Vienna fin de siècle Milano 1981
M. Berman: L'esperienza della modernità Bologna 1985
A. Janik, S. Tuolmin: La grande Vienna Milano 1975
R. S. Wistrich: Gli ebrei di Vienna Milano 1994
D'Agostino, Freschi e Kothanek (a cura di) Mitteleuropa Napoli 1987
S. Ricossa (a cura di) Le paure del mondo industriale Bari 1990
H. von Hofmansthal: Il libro degli amici Firenze 1963
R. Beer‑Hofmann: La morte di Georg Napoli 1065
A. Schnitzler: Racconti Roma 1971
P. Altenberg: Favole della vita Milano 1981
K. Kraus: Gli ultimi giorni dell'umanità Milano 1980
Capitolo III La Mitteleuropa, tramonto dell'Austria
Nel grande romanzo incompiuto di Robert Musil, "L'uomo senza qualità", concepito e scritto tra le due guerre, l'autore ambienta la vicenda della Azione Parallela, celebrazione giubilare di Francesco Giuseppe e di Guglielmo II che, nel 1918 avrebbero rispettivamente celebrato settanta e trenta anni di regno, nell'immediato anteguerra.
Con un misto di ironia e di nostalgia Musil parla, nell 'introduzione, di una nazione oramai scomparsa, dato che l'anno in cui avrebbe dovuto svolgersi il giubileo il 1916, fu quello della dissoluzione dell'impero; la prosa retrospettiva dello scrittore sottintendeva, naturalmente, questa verità storica Già il neologismo Cacania, dalle prime due sillabe tedesche della formula imperial‑regio (kaiser und koenig), testimonia la specificità dì questo paese oramai appartenente al passato:
"(...) E un bel giorno ecco il bisogno frenetico: scendere! Saltar giù! Un desiderio di essere ostacolati, di non più evolversi, di restar fermi, di tornare indietro al punto che precede la diramazione sbagliata. E nel buon tempo antico, quando c'era ancora l'impero austriaco si poteva in quel caso scender dal treno del tempo, salire su di un treno comune di una ferrovia comune e ritornare in patria”.
E' chiaro che qui Musil si riferisce alla modernità come impressione sgradevole di aver già oltrepassato la meta o di aver imboccato la linea sbagliata, senza che oramai sia possibile far niente se non immergersi nell'atmosfera di quel paese scomparso:
"Là, in Cacania, quella nazione incompresa e ormai scomparsa che in tante cose fu modello non abbastanza apprezzato, c'era anche la velocità, ma non troppa. Se trovandosi all'estero si pensava al paese, ecco fluttuava davanti agli occhi il ricordo di quelle strade bianche, larghe e comode del tempo delle marce a piedi e delle diligenze a cavallo, che si snodavano in tutte le direzioni come canali di un ordine stabilito, come nastri di quel traliccio chiaro usato per le uniformi, e cingevano le province col braccio cartaceo del 1 'amministrazione. E quali contrade! C'erano i mari e i ghiacciai, il Carso e i campi di grano della Boemia, notti sull'Adriatico con stridio di grilli inquieti, e villaggio slovacchi dove il fumo usciva dai camini come dalle narici di un naso camuso e il villaggio stava accovacciato tra due piccole colline come se la terra avesse dischiuso un poco le labbra per riscaldare la sua creatura. Naturalmente su quelle strade viaggiavano anche automobili; ma non troppe! Si preparava anche là la conquista dell'aria; ma non troppo assiduamente. Ogni tanto si faceva partire una nave per l'America Latina o per l'Asia Orientale; ma non troppo spesso. Non si avevano ambizioni imperialistiche; si era nel punto centrale dell’Europa, dove si intersecano gli antichi assi del mondo; le parole colonia e oltremare giungevano all'orecchio come cose lontane e non sperimentate. Si faceva lusso; ma non così raffinato come in Francia. Si faceva sport; ma non così accanito come in Inghilterra. Si spendevano somme enormi per l'esercito; ma solo quanto bastava per rimanere la penultima delle grandi potenze. Anche la capitale era un po' più piccola di tutte le altre metropoli del mondo, ma un po' più grande di quel che non fossero di solito le grandi città. E il paese era amministrato, con oculatezza, discrezione e abilità a smussare cautamente ogni punta, dalla migliore burocrazia d'Europa, alla quale si poteva rimproverare un solo difetto: per essa genio e spirito d'iniziativa nelle persone non autorizzate a ciò da alti natali o da incarico governativo erano impertinenza e presunzione. A nessuno del resto piace farsi dettar legge da chi non è autorizzato! E poi in Cacania un genio era sempre scambiato per un babbeo, mai però, come succedeva altrove, un babbeo per un genio".
Paradossalmente quindi il crollo della monarchia multinazionale asburgica nel 1918, aveva dato un senso nuovo all'idea di Europa centrale. La eredità culturale di quella "Cacania" derisa da Musil, dopo aver perduto tutte le battaglie, prendeva il sopravvento negli animi. Ma la realtà storica del dopoguerra era spietata. Ridotta l'Austria ad un piccolo sta, to, la cui assenza di identità nazionale era testimoniata dal suo desiderio, frustrato dall'opposizione dei vincitori, di unirsi alla Germania, cominciava ad assistere. soprattutto nella sua capitale Vienna divenuta più popolosa del resto del paese, al crescere delle tensioni sociali e politiche tra opposti gruppi e schieramenti foriere di un processo di destabilizzazione letale.
Il romanzo di Hugo Bettauer dal titolo "La città senza ebrei", il cui sottotitolo ‑ Un romanzo di dopodomani ‑ suonava tristemente profetico, presentava tratti di bonomia ed un lieto fine rassicurante. Questo anche se il suo autore, un ebreo austriaco, finì assassinato nel 1925 da un nazista che rimase praticamente impunito. D'altronde la campagna di odio contro Bettauer era stata orchestrata da colui che diventerà poi l'ideologo del razzismo nazista e cioè Alfred Rosenberg. Questi un mese prima dell'assassinio dello stesso Bettauer, lo indicava come modello esemplare della disgregazione giudaica".
Nonostante tutto ciò il romanzo è intriso di humour tipicamente ebraico e riecheggia quel clima evocato dalla Cacania di Musil. La vicenda è assai semplice: il Parlamento austriaco promulga un editto per scacciare gli ebrei dall'Austria, pur nel rispetto formale della legalità. Le conseguenze per il paese e in particolare per la sua capitale sono disastrose: l'economia traballa, il commercio langue e la vita di relazione ed i suoi luoghi di elezione, i caffè, si intristiscono. Alla fine sarà necessario richiamare gli ebrei nel paese. In una lettera della fidanzata cristiana al fidanzato ebreo forzosamente all'estero, si descrivono alcuni inconvenienti seguiti all'espulsione sopra ricordata:
"Recentemente, al Graber, a mezzogiorno, mi sono accorta che si vedono molte meno persone eleganti di prima. Non c'è più quel lusso alla moda di una volta. D'altra parte devo dire che quelle facce di aguzzini ebrei, che facevano infuriare anche te, non mi mancano affatto.. In compenso alla passeggiata si fanno sempre più largo gli zoticoni, che sembrano contadini, vestiti in modo impossibile con pesanti catene d'oro al collo e anelli di brillanti alle dita grasse. Tutto il nostro movimento di turisti sembra ridotto solo ai contadini. Il proprietario dell'Hotel Imperial recentemente si è lamentato su dì un giornale che oggi i suoi ospiti si mettono a letto con le scarpe chiodate e lavano i loro panni da cacciatori nella vasca da bagno. Se passassi per la Kertnerstrasse vedresti tu stesso quanto poco eleganti siano ora i negozi".
L'incerto assetto politico della gracile democrazia austriaca ebbe un tracollo nel gennaio del 1927. Nel gennaio di quell'anno si ebbero a Schattendorf violentissimi scontri tra militanti di opposte organizzazioni politiche, conclusisi con una disfatta delle forze di sinistra che ebbero parecchi morti e feriti gravi. Il 15 luglio, dopo un processo svoltosi in un clima di grande tensione politica e conclusosi con la assoluzione degli imputati, si preparano gli eventi che si svolgeranno a Vienna il giorno dopo. Nella capitale scoppiarono terribili disordini, il Palazzo di Giustizia fu dato alle fiamme. e la polizia intervenne brutalmente contro i dimostranti, tra i quali vi furono quasi cento morti ed innumerevoli feriti, Questa profonda ferita inferta alla giovane repubblica non sarebbe mai più stata sanata.
La Vienna attanagliata dalla crisi economica, già politicamente traballante, si mostra nel romanzo di Karl Brunngraber "Karl e il XX secolo" uscito nel 1932. In esso la poetica della "nuova oggettività" si avvale del gelido linguaggio delle cifre per mostrare come i meccanismi socio‑economici che l'uomo ha inventato siano in grado di schiacciarlo psicologicamente sino a indurlo al suicidio:
"Gennaio 1930 in Austria: 308.238 disoccupati. Ogni cinque iscritti alla mutua uno è senza lavoro. Sui giornali appare costantemente l'espressione l'inverno catastrofico". Ma Karl non è una macchina calcolatrice, è un uomo Pieno di passato. L'undici gennaio, mentre cammina per la Stephanplatz, nell'ora del mezzogiorno soffia il fohn. E la miseria di una grande città, al primo momento, non è facile da scoprire. Le facciate delle case stanno in piedi, colossali, le vetrine risplendono di orni ben di Dio e una folla frettolosa, vestita alla moda, percorre le vie asfaltate. Il fallimento si nasconde dietro i muri o dietro i volti, la povertà se ne sta rannicchiata ai margini dell'immenso alveare di pietra. Karl attraversa la piazza che rappresenta il centro della città, passa davanti al duomo millenario. E il sole risplende, intorno ai Pinnacoli è un batter d'ali di colombe. Sembra che la città, con gli uomini e il mare di case, sfiori appena le ginocchia del campanile e della chiesa, la cui quiete possente attrae lo sguardo di Karl. Egli si ferma al sole e Porta la mano al viso: "forse" riflette "le cose stanno per volgere al meglio". Gli sembra impossibile che il destino costringa un uomo di trentasette anni a ricominciare da caro ancora una volta, senza avere in serbo qualche cosa per lui. (…)
La città ha quattordici uffici di collocamento, ognuno dei quali distribuisce quotidianamente il sussidio a ottocento disoccupati, ciò che per lo stato significa una spesa annua di oltre 200 milioni di scellini. Ma Karl, che deve fare due ore e mezza di coda allo sportello, riceverà, sedici scellini alla settimana e un'indennità mensile di tre scellini per l'affitto. Il cinque aprile, per la prima volta, egli riscuote il sussidio. Dal tre aprile frequenta un corso di riqualificazione professionale.
Nell'Augarten fioriscono giá gli astri gialli delle forsizie. Karl non ha neppure danaro per i francobolli. Così, di pomeriggio, non osando sperare nel corso, si presenta di persona alle ditte. Vienna ha 132.808 aziende, 53.353 delle quali sì occupano esclusivamente di affari. Gli impiegati del ramo tecnico, amministrativo e di quello commerciale sono 64.783. Inoltre sono ricoverati in ospedale, in media 16.000 abitanti , ogni anno ne muoiono 27.000 e 5.000 subiscono condanne Penali. Karl non conosce le cifre, ma istintivamente pensa a queste possibilità e, pieno di speranza, si presenta quotidianamente in tre dozzine di uffici del personale…”.
Tra il 1934 e il 1938 si consuma defìnitivamente l'infelice destino dell'Austria tra le due guerre. Ne è anzitutto tragico protagonista Engelbert Dolfuss esponente di spicco del partito cristiano‑sociale con i suo desiderio di conservare l'indipendenza austriaca assai minacciata, dopo il '33, dalle mire naziste su di essa. Per rafforzarne la compagine interna concepì un modello politico "clerico corporativo" che sancirà con la costituzione del primo maggio del 1934. La morte della democrazia era stata precorsa dalla decapitazione delle milizia operaie asserragliatesi nel Karl Marx Hof e dallo scioglimento successivo anche delle organizzazioni naziste austriache. Assassinato infine Dolfuss e venuta meno la garanzia italiana all'indipendenza austriaca per l'appoggio tedesco alla guerra di Etiopia, il successore di Dolfuss nulla potè fare di avverso all'Annessione dì Hitler alla Germania nel 1938.
Nel ventennio tra il 1918 e il 1938 scelse di ambientare "Il conte di S.Germain" lo scrittore Alexander Lernet‑Holenia che lo dette alle stampe nel 1948. L'avventuriero settecentesco che dà il titolo al romanzo serve allo scrittore per conferire rilievo storico alla tragedia epocale della Austria nel ventennio in cui si consumò il crepuscolo di uno stato millenario e il travolgimento di una nazione ancora troppo incerta per accettare quella identità politica decretata dai vincitori nel trattato S.Germain; curiosamente proprio in un luogo il cui nome ricordava il famoso occultista che, si dice, avesse profetizzato la fine dell'Impero. In tale contesto tragico si svolge il dramma del protagonista, anche lui, come il suo creatore, intricato nell'irresolubile problematica della salvezza e della morte, e consapevole di essere l'ultimo di una civiltà ancora fondata su valori e simboli certi e sicuri, mentre già il presente appartiene ad una genia di violenti e arrivisti senza scrupoli, senza dignità nè gusto, nè tatto, destinati a effimeri trionfi per essere spodestati 'da strati sociali sempre più massificati e informi. Di fronte ai volgari vessilli delle croci uncinate hitleriane, il nostro autore prova una profonda nostalgia per il glorioso "Stendardo" asburgico, titolo del suo primo romanzo uscito nel 1934. Ecco come Lernet‑Holenia descrive le dimostrazioni di piazza dei nazisti austriaci sotto il governo‑fantoccio di Seyss Inquart:
"Man mano che mi avvicinavo alla Kertnerstrasse udivo un frastuono confuso, e quando l'ho raggiunta l'ho trovata piena di gente che rumoreggiava e si accalcava tumultuosamente. Dove prima si incontravano persone ben vestite che badavano ai loro affari e ai loro svaghi e prima ancora ufficiali nelle loro uniformi nere e marroni o bianche con ciuffi di penne verdi sulle feluche, dove un tempo si vedevano passare le berline e i coupé dalle ruote dorate che appartenevano alla Corte, ora si aggiravano convogliati lì dai quartieri periferici e dal suburbio, anzi perfino dalle campagne, frotte e sciami di giovani che intralciavano il traffico, gridavano slogans e manifestavano contro il governo. Nessuno prendeva provvedimenti contro di loro; avevano l'approvazione del Ministro degli Interni.
La strada il vero cuore della città, era irriconoscibile. La gente, tutta a un tratto aveva altre facce, un altro modo di vestire e di camminare, altre voci. Non si vedeva più una persona di bell'aspetto, nè uomo nè donna. Si udiva parlare ed imprecare in un disgustoso dialetto. La periferia e la provincia si erano spinte alla conquista del centro e lo avevano invaso.. Negli occhi di quei ragazzi che schiamazzavano e si urtavano a vicenda non si leggeva più nulla di sensato, solo cieco fanatismo. Anche se quella gente non avesse avuto alcuna particolare attenzione, anche se si fosse limitata a imporre la propria presenza, se non avesse voluto niente altro che esser lì, ciò sarebbe bastato a mettere in fuga gli altri, quelli che in quel luogo si incontravano di solito. Ma una città non può sopportare un simile trauma senza perdere il proprio equlibrio. E se la città perdeva l'equilibrio, lo perdevano anche il Paese e i Paesi intorno."
Bibliografia del capitolo III
H. Bogdan: Storia dei paesi dell'Est Torino 1001
J. Le Rider: Mitteleuropa Bologna 1995
H.. Seton‑Watson: Le democrazie impossibili Messina 1992
F.L. Carsten: La genesi del fascismo Milano 1970
G. Brook‑Shepered: L'Anschluss Milano 10/66
R. Musil: L'uomo senza qualità Torino 1956
H. Bettauer: La città senza ebrei Firenze 1993
K. Brunngraber: Karl e il ventesimo secolo Casale Monferrato 1984
A.. Lernet‑Holenia: Il conte di S.Germain Milano 1987
Capitolo IV Il mito asburgico, l'utopia regressiva
L'espressione "mito asburgico" è stata coniata da Claudio Magris per indicare quel processo di trasfigurazione fantastica e Poetica della civiltà danubiana compiuto in particolare da scrittori ed intellettuali ebrei che, fuggiti lontano da ciò che restava del loro paese dopo l'Annessione alla Germania nazista, patirono anche la condizione di esuli. Ed è da questo punto di vista che scrissero sia Joseph Roth a cominciare dal romanzo "La marcia di Radetzky" (1932), che Franz Werfel nel suo "Crepuscolo di‑un mondo" (1936) ed infine Stefan Zweig nel suo libro di memorie "Il mondo di ieri” (1944). E' sintomatico, d'altronde che nessuna delle loro esistenze andasse al di là di quel 1945 anno in cui il mondo scopri con orrore l'Olocausto. Infatti Roth morì di cirrosi epatica a Parigi nel 1939; Zweig ancor più tragicamente si tolse la vita in Brasile nel 1942 incapace di resistere allo scempio che dell'Europa stavano compiendo le dittature nazi‑fasciste ed infine Werfel si spense negli Stati Uniti l'anno della fine del secondo conflitto mondiale.
Il mito asburgico non è però un semplice processo di trasfigurazione del reale, proprio di ogni attività poetica, ma è la completa sostituzione di una realtà storico‑sociale con un'altra fittizia e illusoria, è la sublimazione di una concreta società in un pittoresco. sicuro e ordinato mondo di favola. In questo senso l'affinità con il Biedermeier è assai marcata. Va da sè che questa mitizzazione non è un'astratta fantasticheria, e che quindi è capace. talvolta, di cogliere aspetti reali della civiltà asburgica e di coglierli anzi con particolare finezza di analisi.
Va inoltre sottolineato che la mitizzazione del mondo asburgico che si riscontra nelle pagine scritte dopo il suo sfacelo e più ancora nella "premonizione dell'Olocausto", non è una semplice rievocazione del passato ma s'inserisce in una lunga tradizione, in un processo storico di deformazione della realtà austroungarica; processo di cui gli scrittori contemporanei rappresentano l'ultima fase, il capitolo finale e più esemplare; giacchè il fatto di descrivere quella società dopo la sua scomparsa accentua il carattere di evasione e di fuga dalla realtà che aveva sempre contraddistinto la visione delle cose austriache, il mito asburgico e la centralità del fenomeno musicale. Quello era stato soprattutto un sapiente, efficacissimo strumento di un'accorta alienazione politica, lo sforzo dì trovare ragioni di vita a una compagine statale sempre più anacronistica e impossibile, e di distrarre in tal modo energie dalla concreta percezione della realtà. Naturalmente questo patetico sforzo, sorto da un sincero e appassionato attaccamento ai valori che si volavano difendere, non era rimasto sul piano di una generica propaganda politica, ma era sceso sul piano dei sentimenti e dei valori quotidiani, dello stile di vita.
Questo "stile di vita", secondo l'espressione di Magris, è anzitutto per Roth, proprio di Francesco Giuseppe, dell'imperatore il cui carattere sovranazionale ben corrispondeva al carattere subnazionale degli ebrei. Prima ancora del ritratto di esso nella "Marcia di Radetzky", Roth pubblicava nel 1930 "Figure di cera" nel quale il racconto autobiografico "Sua Maestà Imperial‑Regia” era dedicato a Stefan Zweig. In esso l'autore ricorda quando prima della Grande guerra andava a vedere Francesco Giuseppe che da Schonbrunn partiva per Bad‑Ischl:
"Ed era veramente l'imperatore. Eccolo arrivare, vecchio e curvo, stanco delle poesie e confuso già di primo mattino dalla fedeltà dei suoi sudditi, forse anche un po' infastidito dalla febbre della partenza, in quello stato che nella cronaca dei giornali diventava poi "la freschezza giovanile del Monarca", e con quel passo lento da vecchio, che veniva definito "elastico", camminando quasi a passettini e con gli speroni che stridevano leggermente, sulla testa un vecchio berretto nero da ufficiale, un po' antiquato, di quelli che si usavano ai tempi di Radetzky, non più alto di quattro dita. I giovani sottotenenti disdegnavano questa foggia di berretto. L'imperatore era l'unico membro dell'esercito che si attenesse così rigidamente alle disposizioni. Lui era un imperatore, infatti.
Lo avvolgeva un vecchio cappotto di cui si vedeva la fodera di un rosso sbiadito. Di lato la sciabola tintinnava un po'. Gli stivali lisci, ben passati a cera, splendevano come specchi scuri, e si vedevano i pantaloni neri e stretti con le bande da generale, pantaloni non stirati, rotondi come rocchetti alla vecchia maniera. L'imperatore portava continuamente la mano alla tesa del berretto in segno di saluto. Intanto annuiva sorridendo. Aveva quello sguardo che pare non vedere niente e dal quale ciascuno si sente colpito. Il suo occhio ccmpiva un semicerchio, come il sole,
spargendo su ognuno raggi di grazia".
Se la vecchiaia dell'imperatore indicava in Roth l'estinguersi dello Impero, il suo decesso nel 1916 equivaleva, prima della fine della guerra, alla dissoluzione dell'Impero medesimo. Werfel nel "Crepuscolo dì un mondo" descrisse la cerimonia rituale di ammissione della salma di Francesco Giuseppe nella cripta del Convento dei Cappuccini:
"Il convoglio con la salma di Cesare sostò al Neuer Markt davanti al Convento dei Cappuccini, che custodiscono nella loro Cripta le spoglie mortali dei sovrani asburgici. La bassa porta del convento è chiusa, come se oggi fosse un giorno simile a tutti gli altri. Allora si avanza il primo intendente di corte dell’Imperatore e col suo bastone delle cerimonie bussa imperioso alla porta di legno. Dall’interno echeggiante dell'atrio del convento risuona la voce del monaco:
"Chi chiede di entrare?"
L'intendente di. corte si rizza nella persona e risponde chiaro e reciso, accentuando ogni sillaba del seguente "Grande Titolo”:
“Sua Maestà apostolica imperiale e reale Francesco Giuseppe Imperatore d'Austria, Re d'Ungheria, Re di Boemia, Re del Lombardo‑Veneto, Re di Galizia e di Lodomiria, Re di Croazia e Slavonia, Re di Gerusalemme, Granduca dell'Austria superiore e inferiore, Duca di Stiria, Salisburgo, Carinzia, Carniola e Marca Slovena, di Slesia, Duca di Bucovina. Margravio di Merovingia, Conte principesco del Tirolo, Signore di Trieste”.
Ancora una volta l'Impero fiammeggia nei nomi dei paesi indicati nel Grande Titolo, in tutta la sua grandezza e la sua gloria. Ma la voce del Monaco invisibile risponde: “Non conosco costui".
L’intendente di corte bussa per la seconda volta! Seconda domanda del monaco! L’intendente risponde col così detto “Piccolo Titolo”, che è una modesta concentrazione del Grande. Ora l’Impero viene ristretto ai nomi e alle dignità più importanti. E di nuovo la voce del monaco::
“Non conosco costui”.
L’intendente batte per la terza volta! Terza domanda del monaco! Terza risposta:
“Un povero peccatore!"
''Conosco costui!”
La porta del convento si apre. Alla luce fumosa delle fiaccole l'Imperatore e il suo Impero scendono vacillando entro la cripta dei padri. Il crepuscolo ha ceduto alla notte."
L'ultima parola è bene lasciarla a Stefan Zweig fu infatti lui ad incarnare il compiuto modello dell'intellettuale cosmopolita, complice la sua condizione di ebreo assimilato, impegnato tra le due guerre a combattere quella che egli chiamò in una conferenza del 1932 la disintossicazione morale dell'Europa. Le tossine messe in circolo dalla grande guerra rimanevano operanti ma con una differenza importante. "L'odio (le tossine) si è solo dirottato dal nemico esterno del paese in altre direzioni, è divenuto odio di un sistema verso un altro sistema, di un partito verso un altro partito di una classe verso un'altra classe, di una razza verso un'altra razza, ma nella sostanza le sue forme sono rimaste le stesse: il bisogno di scagliarsi con astio, come un gruppo contro altri gruppi, ancor oggi predomina in Europa.." A conclusione di questa diagnosi Zweig proponeva anche un fine da perseguire da parte di chi aveva a cure le sorti del vecchi continente: “...noi personalmente, che ci siamo posti come fine etico supremo l'ideale di una superiore concordia tra le nazioni, pur conservando ciascuna la propria peculiarità, noi avremmo inoltre l'obbligo di essere di esempio al giovani con l'impegno attivo, instancabile, in favore della giustizia. Per la nostra sensibilità è naturale, se ci asteniamo da ogni parola che rossa accrescere la sfiducia tra le nazioni, se non sporchiamo la nostra penna con una sola frase lesiva dell'onore, del prestigio o anche solo della suscettibilità di una nazione confinante.(...) Noi tutti - intendo: noi scrittori, artisti, musicisti, uomini di cultura ‑ dobbiamo mostrare ai giovani con l'esempio, che ogni acquisizione culturale in ogni paese significa al contempo solidarietà con tutti coloro che in tutte le nazioni la pensano allo stesso modo e perseguono gli stessi fini, e che il nostro senso di ammirazione per ogni conquista non può fermarsi di fronte a barriere linguistiche o frontiere, quasi si trattasse di porte sbarrate."
Questo internazionalismo della cultura patetico e velleitario si frantumò dinanzi alla durezza del tempi, ma forse nell'esilio americano, mentre scriveva la sua autobiografia ‑ "Il mondo di ieri ‑ ed in particolare nella descrizione della Vienna dell'anteguerra, quelle sue convinzioni etico politiche riemergevano disperatamente prima dell'atto finale del suicidio:
"Questo fanatismo per l'arte e in particolare per il teatro a Vienna era comune a tutte le classi sociali., Vienna per sua tradizione secolare era una città bel chiaramente stratificata, ma in pari tempo, come scrissi una volta mirabilmente orchestrata. Il podio apparteneva pur sempre alla casa imperiale. La reggia era il centro non soltanto per l'ubicazione, ma anche in senso culturale, per la supernazionalità della monarchia. Attorno a quella rocca i palazzi dell'alta aristocrazia austriaca, polacca, ceca, ungherese formavano in certo modo il secondo bastione. Poi veniva la "buona società" costituita dall 'aristocrazia minore, dagli alti funzionari, dall'industria e dalle vecchie famiglie, e dopo di esse seguivano i piccoli borghesi e il proletariato. Tutti questi strati vivevano chiusi in se stessi e con i propri quartieri, l'alta nobiltà nei palazzi del centro, la diplomazia del terzo rione, l'industria e i commercianti attorno al Ring, la piccola borghesia nei rioni interni dal secondo al nono, il proletariato alla periferia. Ma tutte le classe sì incontravano e si fondevano a teatro e nelle grandi festività, come per esempio al corso dei fiori lungo il Prater, dove trecentomila persone acclamavano entusiaste gli equipaggi adorni dei "diecimila privilegiatì". A Vienna tutto quello che portava con sè colori o musica diventava ragione di festa: le processioni religiose come quella del Corpus Domini, le riviste militari, la "Burgmusik"; persino ai funerali accorreva folla ed era ambizione di ogni autentico viennese assicurarsi una bella sepoltura con fastoso corteo e molta gente; il viennese trasformava così, anche la propria morte in uno spettacolo per il pubblico. In questa sua simpatia per suoni, colori e feste, in questo suo amore allo spettacolo quale specchio della vita, non importa se sul palco scenico o nella realtà, Vienna non aveva eguali".
Bibliografia al capitolo IV
C. Magris: Dietro le parole Milano 1978
C. Magris: Lontano da dove Torino 1971
J. Roth: Museo delle cere Milano 1995
F. Werfel: Nel crepuscolo di un mondo Milano 1937
S. Zweig: La patria comune del cuore Como 1993
S. Zweig: Il mondo di ieri Milano 1946
Epilogo
Il Valzer dell'Imperatore di Strauss figlio composto in occasione del giubileo del regno di Francesco Giuseppe, ci dice ancora oggi tutta la armonia della fine e tutta la nostalgia per ogni armonia perduta, sopratutto per quella tenera e irripetibile misura dei sensi così esposta allo assalto dell'anonimato e della dissonanza. Se un esponente della Giovane Vienna come Richard von Schaukal diceva che “il tatto è un'impercettibile armonia", non ci si può stupire che anche uno dei padre della dodecafonia, Arnold Schonberg trascrivesse nel 1925 il Valzer dell'Imperatore per complesso cameristico. In realtà l'arte di Strauss nella composizione dei valzer sapeva sfiorare la profondità di quella gioia capace di affermare se stessa oltre la coscienza del tragico e della fine e volta ad eludere la tragedia non per vacuità ma per una garbata avversione alla scompostezza.
Scrivendo al pubblico americano la sua "Lettera da Vienna II" datata 1922, Hugo von Hofmannsthal si chiedeva se fosse casuale che la psicanalisi di Freud fosse sorta proprio a Vienna. La sua risposta era senz'altro negativa e la ragione prima di una tale presa di posizione risiedeva nel fatto che: "Vienna è la città della musica europea: essa è la "porta Orientis" anche per quel misterioso Oriente che è il regno dell'inconscio". Proseguendo nell'argomentazione giustificatoria della sua tesi l'autore asseriva che l'elemento fondamentale della musica austriaca ed in particolare viennese gli sembrava connesso con l'elemento fondamentale dell'esistenza umana: Il con ciò che la lingua francese designava come "sociable" (…) Niente però è tanto strettamente connesso al sociale e al "sociable" quanto la psicologia, che non è nient'altro che la sistematica applicazione delle predisposizioni sociali. Sensibilità per l'altro, attenzione ai suoi moti delicati e una certa capacità di identificarsi in lui, da cui deriva ciò che non si può imparare, il tatto.
Questo tatto chiamato in causa sia da Schaukal che da Hofmannsthal si solidificherà in modo architettonicamente significativo e culturalmente articolato nel romanzo di Heimito von Doderer ispirato ad una scalinata della vecchia Vienna collegante due strade di diverso livello. Il suo titolo completo è: "La scalinata di Palazzo Strudl, o Melzer e l'abisso degli anni, l'anno di uscita il 1946. Questo tramite della circolazione urbana pedonale diviene il centro di una vicenda che coinvolge una ventina di personaggi in un arco di tempo di molti lustri e Doderer ne dà una descrizione che ci riconduce a quel motivo conduttore musicale le cui implicazioni psicologiche sono, per Hofmannsthal, evidenti: “La scalinata Strudel, il palcoscenico della vita dalla scena drammatica accompagnata da timpani e trombe..."
Fungono da introduzione al romanzo dei versi nei quali riaffiora quel tatto che ora prende corpo narrativo:
Alla scalinata Strudel a Vienna
Quando le foglie cadon sui gradini
Tutto ciò che passò per vecchie scale
Risorge e manda un alito autunnale.
La luna e due che si tenevan stretti…
Passi pesanti e fini stivaletti…
Nel mezzo, il vaso colsuo musco verde
Sopravvive alle guerre e non si perde
Quante cose svanirono (oh tristezza!)
E men di tutto dura la bellezza.
Bibliografia dell’Epilogo
H. von Hofmannsthal: L’Austria e l'Europa Casale Monferrato 1983
R. von Schaukal: Vita e opinioni del signor Andreas von Baltheser Milano 1986
H. von Doderer: La scalinata Torino 1965
Elenco delle dispense
Storia
Storia tedesca dal 1848 al 1990
Il primo dopoguerra (1918‑1925): vinti, vincitori e spettatori
Storia dei paesi balcanici dal 1914 al 1990
Preistoria della guerra fredda (1917-1945)
Dalla questione d'Oriente al Medio Oriente
Sommario di Storia Medievale (secoli V‑XIII)
Sommario di Storia Moderna (secoli XV‑XVIII)
Sommario di Storia Contemporanea (secoli XIX‑XX)
L'età vittoriana Storia della prima Repubblica
Storia e letteratura
I generi e la storia: storia, distopia e politica
Aspetti della storia italiana dalla Quarta sponda al fascismo
"Scendere dal treno del tempo" l'immagine di Vienna nella cultura inglese
"In questa città mito, storia e presente fluivano continuamente uno nello altro" l'immagine di Praga nella cultura boema.
"C'era in essa abbastanza spazio per situarvi qualsiasi storia" l'immagine di Londra nella cultura inglese.
Filosofia
I due versanti della modernità
Hegel e il compimento della storia
Dante e la filosofia
Scienze umane
Oltre le appartenenze
L'uomo del XX° secolo: realtà ed autoconoscenza
Paolo Genesio