Lucia Labardi
Mirra dalle Metamorfosi ( X 298-502) di Ovidio alla tragedia di Alfieri
Per rispettare la formulazione del titolo che presuppone la conoscenza del passo delle Metamorfosi, mi sembra utile partire dall’analisi dei versi ovidiani, per misurare poi la distanza che separa Ovidio da Alfieri.
Mi piace ricordare alcune acute riflessioni di Italo Calvino[1] che riguardano l’episodio che mi accingo ad esaminare, perché Ovidio è autore congeniale a Calvino che è scrittore grandissimo, ma anche valido critico e saggista e difatti coglie in pieno le caratteristiche peculiari delle Metamorfosi e formula felici intuizioni che possono interessare l’episodio di Mirra:
In confronto al continuo incalzare dei desideri maschili, i casi di iniziativa amorosa femminile sono più rari; ma in compenso si tratta di amori più complessi, non di capricci estemporanei ma di passioni che comportano una ricchezza psicologica maggiore…implicano spesso una componente erotica più morbida… e in alcuni casi si tratta di passioni illecite, incestuose (come i tragici personaggi di Mirra, di Biblide…).
Questa è certo l’osservazione più interessante. Scrive ancora Calvino:
Le Metamorfosi sono il poema della rapidità: tutto deve succedersi a ritmo serrato… e quando Ovidio sente il bisogno di cambiare ritmo, la prima cosa che fa non è cambiare il tempo dei verbi ma la persona, passando dalla terza alla seconda, cioè introdurre il personaggio di cui si sta per raccontare rivolgendoglisi direttamente col tu.
Ciò accade molto spesso, come ho avuto modo di constatare nei versi delle Metamorfosi che rievocano il dramma di Mirra.
Nel libro IX del poema ovidiano ai vv. 454-665 compare un altro amore incestuoso, di Biblide per Cauno: la giovane non consuma l’incesto, perché il fratello la respinge, mentre ella lo insegue invano, finché, struggendosi in lacrime, si trasforma in fonte. Nella composizione delle due vicende, quella di Biblide e di Mirra, l’autore sembra rispettare una rigorosa simmetria: esordisce condannando esplicitamente le passioni delle due fanciulle; a proposito di Biblide in IX vv. 454-56:
Byblis in exemplo est, ut ament concessa puellae;/ Byblis Apollinei correpta cupidine fratris:/ non soror ut fratrem, nec, qua debebat, amavit/.
Analogamente per il caso di Mirra Ovidio non nasconde sdegno e disapprovazione, usando espressioni più forti di quelli per Biblide, proprio all’inizio della storia ( X vv. 300-303):
Dira canam, procul hinc natae, procul este parentes,/ aut, mea si vestras mulcebunt carmina mentes,/ desit in hac mihi parte fides, nec credite factum;/ vel, si credetis, facti quoque credite poenam.
Ovidio è consapevole della gravità dell’incesto e nei versi successivi si dichiara felice perché nella terra da lui abitata non si verificano simili pratiche.[2]
Dopo l’allocuzione alle figlie e ai padri e di seguito alla precedente riflessione, l’autore si rivolge a Mirra, usando la seconda persona, vv. 311-15: Ipse negat nocuisse tibi sua tela Cupido,/ Myrrha, facesque suas a crimine vindicat isto:/ stipite te Stygio tumidisque adflavit echidnis/ e tribus una soror: scelus est odisse parentem,/ hic amor est odio maius scelus.[3]
Ovidio fa risalire a potenze tradizionalmente vendicative e funeste, le Furie, la passione insana della giovane. Il narratore ammonisce Mirra che, se è delitto odiare il padre, l’amore è una colpa maggiore dell’odio e usa la seconda persona e l’allocuzione diretta con l’intento di dialogare con la protagonista e la invita a scegliersi un marito fra i tanti pretendenti. Poi, con rapido passaggio, Orfeo, riflette in terza persona sul comportamento della protagonista, rivelandosi un potente conoscitore dell’animo femminile.
L’autore sottolinea che Mirra riconosce il suo amore come illecito e lotta per vincerlo, cfr. vv. 319-22: “illa quidem sentit foedoque repugnat amori”. Dal v. 320 inizia un lungo monologo in cui la povera fanciulla dialoga con se stessa, quasi sdoppiandosi. E’ proprio lo sdoppiamento che pone di fronte due personalità di Mirra, quella volta all’incesto, l’altra trattenuta da remore morali. Io credo che uno dei motivi che stanno all’origine di questa doppia personalità della protagonista sia l’orrore dell’incesto manifestato dall’autore già nell’episodio di Biblide e qui ribadito. Ovidio considera tanto grave la colpa da renderla possibile solo con l’intervento di una divinità malevola che agisce spezzando l’identità morale e psicologica della vittima, in questo seguendo la linea della tragedia greca. Una parte di lei non sa resistere alla passione e vuol assecondarla e giustificarsi e l’altra la condanna e la rifiuta:
Et secum ‘quo mente feror? quid molior?’ inquit/ di, precor, et Pietas sacrataque iura parentum,/ hoc prohibete nefas scelerique resistite nostro,/ si tamen hoc scelus est.
Il poeta latino, costruendo questo monologo, seguiva una raffinata organizzazione retorica[4]. Mirra, conscia di essere trascinata da un folle pensiero, prega gli dei, la Pietà e le leggi degli avi perché impediscano il suo “scelus”; subito dopo, per l’intervento della Mirra “incestuosa”, la protagonista arriva a mettere in dubbio che si tratti di colpa grave e prosegue con la giustificazione, arrivando ad invidiare il mondo animale e i popoli presso i quali l’incesto è praticato, vv. 323-33: Felices, quibus ista licent! Humana malignas/cura dedit leges, et, quod remittit,/ invida iura negant. Gentes[5] tamen esse feruntur,/ in quibus et nato genetrix et nata parenti/iungitur; et pietas geminato crescit amore./ Me miseram, quod non nasci mihi contigit illic/ fortunaque loci laedor!Quid in ista revolvor?/ Spes interdictae discedite! Dignus amari/ ille, sed ut pater, est.
La protagonista è come in preda ad un delirio, anche se i ragionamenti del personaggio sdoppiato sono sapientemente impostati secondo norme retoriche. Nei versi successivi, prima prende in considerazione la possibilità di lasciare la sua terra per sfuggire allo “scelus”, poi ci ripensa e sente di essere trattenuta a rimanere proprio per avere contatti col padre[6].
Intanto la Mirra raziocinante si appresta a intervenire, rivolgendosi con la seconda persona, all’altra parte antagonista, ricordandole non solo la confusione di ruoli familiari che si verrebbe a creare nel caso di soddisfacimento del suo desiderio, ma anche la vendetta delle Furie. Per togliere alla sua antagonista la possibilità di ribattere, le rammenta come Cinira è uomo pio e rispettoso della morale e quindi è impossibile sperare in un suo consenso: ma nello stesso periodo, dopo una sospensione, sembra che la Mirra incestuosa si insinui, dichiarando al v. 355: “ et o vellem similis furor esset in illo!”.
Cambia sequenza e compare il padre con la proposta di nozze; la giovane non nasconde il suo turbamento e, alla richiesta di come dovrebbe essere il futuro sposo, ella ribatte, v. 364: ‘similem tibi’. Questo faccia a faccia fra Mirra e il padre rivela già l’indole poco perspicace di Cinira.
Ancora un rapido trapasso nella vicenda che è impostata su quadri rapidi, efficaci come Ovidio sa fare. Scende la notte e la descrizione riecheggia un passo simile di Virgilio,Eneide IV,521sgg.: la situazione è analoga nei due poemi perchè due donne innamorate, Mirra e Didone, non riescono a riposare, mentre gli altri esseri viventi godono di sollievo e di pace. I versi ovidiani sono ricchi di iterazioni che enfatizzano la concitazione della protagonista. Memore di un passo di Virgilio, Eneide, II 626 sgg.,[7] Ovidio paragona l’ondeggiamento dei propositi nell’animo di Mirra alla caduta di un gran tronco che, tagliato, non si sa dove andrà a cadere, ai vv. 372-75:
Utque securi/ saucia trabs ingens, ubi plaga novissima restat,/ quo cadat, in dubio est omnique a parte timetur,/ sic animus vario labefactus vulnere nutat/ huc levis atque illuc, momentaque sumit utroque.
Finora Mirra non ha mai accennato alla morte come soluzione per il suo folle desiderio; ora, invece, decide di darsi la morte, sistemandosi un cappio al collo, rivolgendo le ultime parole a Cinira che finalmente capirà, vv. 377-81:
Nec modus et requies, nisi mors, reperitur amoris:/ mors placet. Erigitur, laqueoque innectere fauces/ destinat, et zona[8] summo de poste revincta,/ ‘Care vale Cinyra, causamque intellege mortis’/ dixit, et aptabat pallenti vincula collo.
Ovidio ha probabilmente presente l’Ippolito di Euripide, dove Fedra si impicca per non compromettere il suo onore, ma dopo l’intervento vano della nutrice e il rifiuto di Ippolito. Nel caso di Ovidio Mirra non si è dichiarata, ma sa egualmente che non potrà raggiungere il suo desiderio e che qualora ci riuscisse si macchierebbe di un “nefas”. Del resto, anche se ci sono analogie fra l’episodio di Mirra e la vicenda di Fedra nell’Ippolito, si riscontrano notevoli differenze Il problema del confronto fra le due opere esula dal presente assunto, basti solo averne accennato.[9]
Ritornando al tentativo di Mirra di impiccarsi, la nutrice interviene in tempo per liberarla dal laccio e salvarla, ma vuol sapere il motivo di questo gesto, enfatizzando il suo legame affettivo con la giovane, mostrandole il seno che l’ha allattata. È un particolare patetico che Ovidio non disdegna, ma che verrà eliminato da Alfieri, incline ad evitare tutti gli elementi melodrammatici o eccessivamente patetici. Il proposito di suicidio era ponderato e convinto e ha qualche analogia con il desiderio di Fedra nell’Ippolito euripideo che vuole morire prima di rivelare il suo segreto, a lungo celato. Le parole di Fedra cadono proprio all’interno di un suo colloquio con la nutrice, come si legge nell’Ippolito, 391, sgg. (riportati sopra, nota 10). Tornando a Ovidio, il faccia a faccia di Mirra con la nutrice dura a lungo, proprio per la caparbietà della giovane di nascondere il suo segreto e la determinazione della donna di conoscerlo, per evitare un nuovo tentativo di suicidio che lei non possa neutralizzare. La lotta di Mirra per nascondere nel suo animo la passione prova che in lei spesso agisce la componente morale che la porta a tacere, compatibilmente con lo sconvolgimento psicologico e affettivo che Ovidio, attraverso le parole di Orfeo,attribuisce alle Furie all’inizio dell’episodio.Tale condizionamento, in quanto dichiarato, va preso nella dovuta considerazione, quando si vorrà giudicare sull’innocenza o la colpevolezza di Mirra. La nutrice incalza con le sue domande la povera fanciulla che tace, vv. 389 sg. Questo tacere e abbassare lo sguardo ricorda molto il suo disagio di fronte al padre che ne aveva esaltata la “pietas”, senza capire niente di ciò che si agitava nell’animo della figlia. La vecchia, come la nutrice di Fedra nell’Ippolito, cerca di aiutarla: il dialogo fra le due donne è esposto magistralmente da Ovidio nei vv: 395-430.
L’anziana donna cerca una soluzione e la trova approfittando dell’assenza dal talamo coniugale della madre di Mirra,impegnata a partecipare alle feste in onore di Cerere-Demetra; il narratore fornisce ragguagli su queste feste che comportavano per nove notti la proibizione di rapporti delle donne con gli uomini.[10]
Il giudizio di Orfeo, che nasconde quello dell’autore, sul progetto della nutrice è di aperta riprovazione, mentre si intravede, se non indulgenza, almeno la percezione dell’infelicità e della condanna di cui Mirra è vittima da parte delle Erinni ( si vedano i vv. 437-445).
Cosa Ovidio pensava di Cinira? Posso solo cercare di indovinarlo. Stupisce che quello che ci aspettavamo come un buon padre sia sorpreso ubriaco nel suo letto. Il narratore-autore, non era tanto interessato a dare un giudizio sul padre, quanto a condannare risolutamente l’iniziativa della nutrice. Si dovrebbe tener conto anche che l’anziana donna sta cercando di salvare l’adolescente che ha allattato ed è per lei come una figlia; il testo è duro e, a proposito di lei, si dice: “male sedula nutrix”. Per dare un giudizio sulla vicenda e soprattutto sul comportamento del padre, teniamo presente che la proposta della nutrice di fare incontrare la giovane col padre, non sarebbe stata avanzata, se Cinira era noto come incorruttibile[11] e poco propenso a avventure del genere, invece la nutrice non ha difficoltà a convincerlo, puntando non tanto sulla bellezza della fanciulla, quanto sulla sua giovanissima età. Su alcuni aspetti del linguaggio usato da Mirra e la donna si è soffermata la critica .[12]
Dunque ci sono i presupposti per l’incontro notturno fra i due amanti sconosciuti l’uno all’altro.L’itinerario verso l’incestuoso appuntamento rinvia, ancora una volta, ai versi di Virgilio, Eneide IV 522 sgg.( versi già citati a proposito della prima scena notturna), ma questa volta si tratta solo di una reminiscenza subito accantonata e il contesto se ne discosta precocemente. In Virgilio prevale il senso della pace della natura e dei viventi, in contrapposizione al tormento interiore di Didone a cui s’accompagna, nel testo ovidiano, esemplato su Virgilio, l’agitazione di Mirra vv.443-45. In questo viaggio notturno verso il compimento di uno “scelus”, la natura sembra ritrarsi inorridita. Il narratore-autore sottolinea che la luna fugge, le nubi coprono le stelle e ovunque si stendono le tenebre che servono a coprire il viaggio delle due donne complici, ma dal diverso stato d’animo, come vedremo. Le tenebre servono a enfatizzare l’orrore che la natura prova per qualcosa che sta per succedere ed è “nefas”. Forse, Ovidio, togliendo ogni barlume di luce intorno, vuol simbolicamente alludere alle tenebre della ragione che avvolgono la complice e travolgono anche la protagonista che non recede dall’intento, nonostante eventi premonitori di sventura, mentre l’anziana, senza porsi scrupoli, la conduce per mano all’appuntamento.
Dal v. 456 Mirra avverte il disagio di varcare la soglia della camera, di aprire la porta, di essere introdotta dentro ( si suppone nell’oscurità, perché il padre altrimenti l’avrebbe riconosciuta). È certo che nel suo giovane animo ancora resiste la consapevolezza della colpa, che si concretizza in un preciso malessere fisico: le ginocchia tremano vacillando, il volto impallidisce, il coraggio l’abbandona. Si pente dell’azione intrapresa, che tuttavia non è stata da lei escogitata e vorrebbe tornare indietro, senza essere vista. Mi pare che in questi versi ci siano i margini per trovare attenuanti alla colpa dell’adolescente: non dimentichiamo che è tale; dovremo addossare una maggiore responsabilità alla nutrice e al padre stesso, perché la prima la tira per mano, l’accosta al letto e il secondo lieto l’accoglie. Rivediamo la frase, per me estremamente significativa, del fatto che la vergine diventa possesso dello sconosciuto, almeno dal punto di vista del padre, mentre la nutrice sa che è la sua creatura, v. 463 sg.: ‘Accipe’, dixit/ ‘ista tua est, Cinyra’, devotaque corpora iunxit”. È vero che Mirra desidera questa unione, pur con i comprensibili sensi di colpa e quindi non possiamo parlare di violenza, ma avverto in quelle tre parole “ista tua est” qualcosa che non piace e che tradisce una mentalità diffusa nella società romana ma che forse stenta a morire ancora oggi. Poi, favorita dalla nutrice, avviene l’unione dei due corpi, come “scelus” , come “nefas”, colpe che Mirra ha sempre temuto. L’espressione del v. 464: “devotaque corpora iunxit” deve essere intesa correttamente, come ci suggerisce la consultazione del Thesaurus ; “devotus” può voler dire : execrabilis, detestandus, maledictus e Ovidio lo usa spesso in questo senso[13].Poiché non sussiste nessuna incertezza sulla connotazione negativa dell’aggettivo tradurrei: “ e unisce i corpi maledetti ”. [14]
La descrizione dell’incesto prosegue con forte connotazione negativa, come quando il genitore accoglie “sua viscera” , la figlia frutto della sua carne nell’ “obsceno[15] lecto”, che sarà da intendersi come “letto impuro”(Faranda), mentre Piero Bernardini Marzolla traduce omettendo il termine e sostituendolo con l’aggettivo “suo”, riferito al letto di Cinira.
Il v. 466 induce a riflessione: “virgineosque metus levat hortaturque timentem”: soggetto è Cinira che comprende i timori della adolescente e cerca di aiutarla a vincerli. Si direbbe che sia un uomo abituato a questo tipo di rapporti. Alonge[16] nutre dubbi sull’innocenza di Cinira.
A questo punto penso sia opportuno rivedere anche il giudizio che Mirra dà sul padre al v. 354: “pius ille memorque/ moris” [17].
La giovane concepisce un figlio, peraltro bellissimo, Adone, dall’unione col padre; Ovidio persegue l’intento di rappresentare l’episodio connotandolo negativamente: basta legare i termini dell’incesto con i loro attributi, per esserne convinti: “ inpia semina”, allude all’empio seme di Cinira; “diro utero” all’utero maledetto di Mirra; “concepta crimina” alla creatura concepita nella colpa.
Gli incontri fra i due amanti continuano, finché Cinira, l’ultima notte, illumina il volto della giovane sconosciuta ed è sconvolto, perché contemporaneamente riconosce lo “scelus” compiuto e la figlia complice, vv. 473-75. Venendogli a mancare le parole per il dolore, afferra la spada e insegue Mirra che, protetta dalle tenebre, si dilegua nella campagna. Riflettendo al gesto del padre che insegue la figlia per punirla e si tira fuori da ogni colpa, sono rimasta sorpresa della soluzione che Ovidio ha dato alla vicenda, in quanto Cinira ha quanto meno un concorso di responsabilità, poiché ha accettato di unirsi con una sconosciuta, approfittando dell’assenza della moglie; questo particolare nasconde un temperamento libertino e un legame di coppia molto debole o inesistente, in contrapposizione all’unione fin troppo salda di Ciniro con la moglie nella Mirra dell’Alfieri.
La parte del testo ovidiano utile per il raffronto con la tragedia dell’Alfieri finisce qui: Alfieri sviluppa la vicenda in modo molto diverso e personale.
I versi delle Metamorfosi che concludono l’episodio sono di alta poesia e, a mio avviso, riscattano la figura della protagonista, evidenziandone i disagi della fuga solitaria, la dolorosa metamorfosi, il parto traumatico. La giovane è stanca per il peso che porta in sé, che è anche un peso psicologico, disonore che non l’abbandona. Mirra riconosce la sua colpa e questa ammissione le dà il diritto di pregare gli dei e di essere esaudita; non rifiuta la sofferenza, ma chiede di essere trasformata in un essere che non contamini né il mondo dei vivi né quello dei morti. La vediamo sempre piangere e le lacrime che stilleranno dal tronco dell’albero della mirra in cui verrà trasformata saranno celebri in eterno. Aveva ragione Alfieri a piangere, a sua volta, per la sorte dell’infelice fanciulla, anche se egli circoscriveva la sua commozione allo strazio della giovane che alla fine fa conoscere la sua folle passione alla nutrice.
A conclusione dell’analisi del passo ovidiano, mi sento di osservare che l’autore ha creato versi di grande impatto emotivo e di poter affermare che l’autore nelle Metamorfosi, poema mitologico, ha scritto una “tragedia” in poco più di duecento versi
Di Ovidio Alfieri coglie nell’episodio le caratteristiche di una vera e propria tragedia e seleziona i vv. 316-428 del l.X delle Metamorfosi variando notevolmente all’interno di poco più di cento versi, tagliando la parte della vicenda che non gli interessa. Il poeta tiene conto anche di altri autori e di altre opere: Igino e Apollodoro con i loro Miti, ma anche la Fedra di Racine, la Fedra di Seneca, l’Edipo re di Sofocle e l’Ippolito[18] di Euripide, tutti legati a casi di incesto non consapevole, o consapevole e desiderato.
L’astigiano individua il momento di maggior tragicità nel passo del l.X delle Metamorfosi nella confessione, da Mirra faticosamente repressa, alla nutrice, v. 422: “o felicem coniuge matrem!”. L’Alfieri, riprende le parole di Mirra facendole rivolgere dalla giovane al padre: “Oh madre mia felice!... almen concesso / a lei sarà … di morire al tuo fianco.” La formulazione alfieriana, ritoccata rispetto al testo ovidiano, si carica di un peso determinante, perché le parole sono rivolte proprio al padre, l’oggetto del suo desiderio. Quando la giovane si accorge di essersi lasciata sfuggire il segreto della sua passione, comincia la parte più drammatica che condurrà rapidamente il lettore verso la catastrofe della tragedia.
Nella Mirra la verità viene fuori solo alla fine, mentre in Ovidio, all’inizio del passo, il narratore condanna esplicitamente l’incesto della protagonista e accenna alla metamorfosi, informando subito il lettore dell’andamento e dell’esito del mito.
Alfieri, prendendo spunto dall’autore latino, innova profondamente una vicenda che è nota agli spettatori, ma deve risolvere i seguenti problemi: rendere la favola accettabile come tragedia destinata al pubblico del suo tempo; evitare, di conseguenza, che Mirra compia l’incesto, di cui non deve essere traccia nel testo, neppure come episodio (s’intende ) raccontato; prendere spunto dall’allocuzione di Mirra alla nutrice, ma poi, come necessario, riempire i cinque atti in modo originale, introducendo almeno due personaggi: la madre e il fidanzato Pereo e far scoprire al pubblico la verità solo alla fine.
Ma il fatto più importante, da mettere in forte evidenza, è che la tragedia è dall’astigiano anticipata e mutata di natura: infatti Mirra si uccide dopo che la sua passione si è manifestata e si toglie la vita innocente; la Mirra ovidiana è, invece, stata causa della sua colpa, anche se poi subentra il pentimento. Anche Ovidio è tragico, ma in lui la tragedia è tragedia di rimorso e di pentimento; Alfieri, come ho detto, l’ha voluta anticipare, come tragedia di una passione illecita e della resistenza ostinata a questa stessa passione.
Mi pare che in questo aspetto si colga una forte divergenza nell’approccio dei due autori alla materia. I motivi che inducono l’astigiano a mettere in forma di tragedia le sofferenze di Mirra emergono dalla lettura di passi della Vita, dal sonetto di dedica della tragedia alla Stolberg, dal Parere dell’Alfieri sulla Mirra.
Dalla Vita [19]siamo informati sull’ occasione in cui fu scritta la tragedia, ma anche dai vv. 9-14 del sonetto[20] di dedica della Mirra alla contessa Luisa Stolberg, che enfatizza l’emozione che la vicenda suscitava nell’amante:
Della figlia di Ciniro infelice/ l’orrendo a un tempo ed innocente amore,/ sempre da’ tuoi begli occhi il pianto elice:// prova emmi questa, che al mio dubbio core/ tacitamente imperiosa dice;/ ch’io di MIRRA, consacri a te il dolore.
Nel Parere [21] ricostruisce anche la sua commozione nel leggere la vicenda di Mirra in Ovidio e il desiderio di ricavarne una tragedia.
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Per evidenziare il modo con cui lavora l’Alfieri, molto diverso da quello di Ovidio, mi servirò dell’edizione del Capucci[22], cercherò di mettere spesso a confronto idea, stesura, versificazione ( le fasi attraverso le quali passano le tragedie alfieriane), per rendere conto di eventuali ripensamenti o sfumature conferite al testo definitivo.
Questo raffronto permette di cogliere anche le differenze che separano Ovidio da Alfieri. Ad esempio, nella Mirra non compare il narratore, che avrebbe sicuramente creato sconcerto nel pubblico e tolto mordente alla tragedia, qualora avesse, come in Ovidio, anticipato gli elementi salienti della storia e la sua riprovazione. Appaiono invece due figure femminili Cecri, la madre di Mirra e Euriclea, la nutrice. In Ovidio la nutrice, a differenza di quanto avviene nella Mirra, è determinante e senza di lei probabilmente non sarebbe avvenuto l’incesto: si tratta di due personaggi molto diversi. Nel primo atto dell’idea[23] Alfieri fa emergere che la madre ama la figlia, che ella ha concepito dall’amatissimo e bellissimo Ciniro. Il raffronto con Ovidio, anche in questo caso, risulta vano perché di Cinira non sappiamo niente, per quanto riguarda l’aspetto fisico. Credo che sottolineare la bellezza dell’uomo risponda ad una duplice esigenza: far sì che si giustifichi l’attrazione della figlia e della moglie per lui. Sempre nell’idea stupisce che la madre raccomandi alla nutrice la cura della figlia,[24] senza che lei se ne occupi in prima persona.
Nella stesura vengono amplificate e ribadite le linee essenziali dell’idea, ma sempre con particolari assenti in Ovidio e che, sottolineo, Alfieri costruisce autonomamente o con il supporto di altra fonte. Va notato, però, che mentre nell’idea non appariva così netta la differenza di atteggiamento che Mirra prova verso la nutrice e nei confronti della madre, nella stesura viene evidenziata e d’ora innanzi il rapporto privilegiato di Mirra sarà con la nutrice. Inutile dire, per chi ha letto Ovidio, che, in questo caso, ogni raffronto fra personaggi, è impossibile. Della madre assente di Ovidio non possiamo dire niente. Nella costruzione del personaggio di Cecri agivano ricordi infantili o adolescenziali: sappiamo dalla Vita che la madre di Vittorio era come Cecri, più moglie che madre.
Di Ciniro l’autore dice che è bellissimo, ma anche buono: è tratteggiato positivamente, pensa ad annullare le nozze, se la figlia non è d’accordo.
Anche in questo caso il confronto con l’autore latino non aiuta, ma da quello che emerge Cinira non viene affatto esaltato da Ovidio.
Nella Mirra Cecri si rammarica di aver omesso i sacrifici a Venere e di aver nutrito presunzione sulla bellezza della figlia. Ne rende conto al marito nella versificazione, ne riceve giusti rimproveri, ma contenuti.
Ovidio, invece, non chiama in causa Venere, ma una delle Furie; probabilmente Alfieri, per questo particolare, attingeva da Apollodoro o Igino: interessante notare la sua capacità di attingere alle fonti in modo funzionale alla struttura della sua opera e ad esigenze poetiche.
Nel II atto, partendo dall’idea, troviamo all’inizio della vicenda Ciniro e Pereo[25]: il giovane avrà uno spazio notevole all’interno del dramma ma è creatura tutta alfieriana e non compare in Ovidio. Già nell’idea Ciniro nutre dubbi sull’amore della figlia per Pereo e decide di lasciarli soli a colloquio. Nel dialogo con il fidanzato Mirra è in preda a grande agitazione, e Pereo, con grande sofferenza, capisce che la giovane non lo ama ed è spaventata dall’idea delle nozze. Segue il colloquio di Cecri con Mirra che le chiede il veleno per morire e sottrarsi ad una vita per lei insostenibile. Questa idea della morte e della “ mestizia” è un elemento ricorrente in Alfieri, anche in altre opere, soprattutto nelle Rime . Nella stesura il dialogo fra Pereo e Ciniro è molto più articolato di quanto non lasci prevedere l’idea. Credo che l’autore abbia sentito la necessità di accentuare alcuni tratti del carattere e del comportamento di Pereo che lo qualificano come amante appassionato, disposto a rinunciare alla giovane; nella versificazione il principe dichiarerà di lasciarla libera da ogni promessa, anche se ciò gli comporta sofferenza II 70 sg.: “Deh! fossi / vittima di dolor tanto io solo!” e al v.92 sg.: “A me fia dolce / anco il morir, purch’ella sia felice.”
Nella stesura e nella versificazione l’atto si chiude con l’inutile richiesta di veleno alla nutrice da parte di Mirra.Da notare che nell’idea, forse per influenza dell’Ippolito[26] di Euripide, giura di volersi lasciare morire di fame, dopo che non ha potuto ottenere il veleno.
L’atto III, nelle sue quattro scene, risulta una sorta di investigazione di Ciniro e Cecri per tornare a spiegarsi lo strano comportamento della figlia. In effetti questa parte tradisce la difficoltà dell’autore di portare avanti per cinque atti una tragedia, senza potersi appellare al movimento dell’azione, ma affidandosi alle riflessioni interiori o dialogate dei personaggi. Sarà facile, a lettura ultimata, capire come in questa dramma è determinante solo il V atto.
L’idea del III atto è estremamente sintetica e non è utilizzabile per riflessioni e confronti; più interessanti risultano la stesura e la versificazione. Nella stesura Mirra sospira di fronte alle domande dei genitori, nella versificazione trema. Il particolare non deve apparire di secondaria importanza.Alfieri, passando dall’una all’altra fase, ha capito che un animo femminile giovane, fragile e colpito dalla passione, ha reazioni forti: sospirare non basta, può essere più rispondente alla situazione tremare. E da questo momento Mirra sarà in preda a svenimenti e soprattutto a quel movimento incontrollabile del corpo che è il tremare. Nell’imminenza delle nozze, confessa: “Oggi son elle [le Furie], / con mia somma vergogna e dolor sommo, / giunte al lor colmo al fin”( III,119).
Poi, in un momento in cui la giovane è preda di ondeggiamenti sul da farsi, prende in considerazione le varie opportunità ed è propensa a sposarsi per lasciare la casa paterna e morire dopo. Arriva Pereo e Mirra si dichiara pronta alla cerimonia nuziale.
Nell’atto IV si avviano le nozze non portate a termine per le sofferenze e il turbamento di Mirra. In Ovidio, ovviamente, non c’è questo particolare: come sappiamo Mirra concepisce e poi sfugge alla spada del padre, quindi l’Alfieri era costretto a inventare completamente l’episodio e a curarne tutti i risvolti psicologici e drammatici, ancora una volta senza modelli di riferimento. Durante le nozze Mirra è in preda ad un tremito avvertito da Cecri, Euriclea e Pereo che si allontana rifiutando il matrimonio e facendo presagire la sua fine. In questa parte dell’atto non risultano rilevanti le differenze fra stesura e versificazione, tranne la presenza di un aggettivo che credo abbia un certo rilievo: stesura IV 5, Mirra al padre: “Quel ferro che al fianco ti cingi entro al mio petto tu vibra.” Di contro a IV 5, 221 della versificazione: “ Entro al mio petto vibra / quella che al fianco cingi ultrice spada.”, dove solo l’aggettivo “ultrice” fa la differenza. Possiamo dire che mentre la Mirra di Ovidio, dopo l’incesto, si sente colpevole ma fugge la spada del padre, la Mirra dell’Alfieri, anche se innocente, interpreta come colpa un affetto degenerato in passione, pur non consumata, e chiede ripetutamente di essere punita da tutti, anche e soprattutto dal padre.
Sono due modi di guardare alla vita, al vorticoso incepparsi del mondo interiore, sono due modi diversi di reagire, sono due poeti che interpretano in modo diverso lo stesso mito, alla luce della loro sensibilità, della loro esperienza affettiva, del pubblico che aspetta di leggere o di vedere rappresentate le loro opere.
C’è nel IV atto un passo in cui Mirra non nasconde il dolore che gli abbracci della madre le provocano; arriva anche a dire con palese reminiscenza dell’Edipo re di Sofocle che preferirebbe strapparsi gli occhi con le sue stesse mani piuttosto che vedere la madre che veglia su di lei, come a voler cancellare l’esistenza di una persona che dovrebbe esserle cara, ma che la passione rende rivale e nemica; si tratta solo di una folgorazione di follia, perché subito dopo si pente, IV 270-74:
Mirra. Ah! Troppo / dolor mi accresce anco il vederti: il cuore, / nell’abbracciarmi tu, vieppiù mi squarci…- / Ma… oimè!... che dico?... Ahi madre!... Ingrata, iniqua, / Figlia indegna son io, che amor non merto.
Tuttavia, dopo il pentimento, un nuovo impeto di odio verso Cecri, IV, 282- 87:
Mirra: Tu vegliare al mio vivere? Ch’io deggia, / ad ogni istante, io rimirarti? Innanzi / agli occhi miei tu sempre? Ah! Pria sepolti / voglio in tenebre eterne gli occhi miei: / con queste man mie stesse, io stessa pria / me li vo’ sverre, io dalla fronte…
Di nuovo la protagonista chiede perdono, attribuendo il suo disordine affettivo e mentale alle Furie, ma il rapporto fra le due donne è ormai chiaro e, mentre in Ovidio era ingenua la frase di Mirra rivolta alla madre, invidiandole tale coniuge, qui purtroppo lo stato d’animo è palese: Mirra la considera come una rivale, secondo i postulati freudiani.
Nel V atto l’autore fa intervenire subito Ciniro: ormai la tragedia ha seguito un suo percorso; l’artista è riuscito a portarla all’atto finale, adesso può essere compiuta con tutte le caratteristiche del dramma che fino a questo momento, talvolta languiva.
Dal confronto di idea, stesura e versificazione, notiamo che nell’idea Pereo si uccide alla fine del V atto sul corpo di Mirra morente, come Emone nell’Antigone, invece nella stesura e nella versificazione è Ciniro che notifica a Mirra, ancora viva e senza aver fatto trapelare nulla del suo segreto, il suicidio di Pereo, come già avvenuto. Per darci una spiegazione di questa “variante drammatica”, ci possono venire in aiuto alcune considerazioni. Intanto la cronologia dell’idea[27], stilata nel 1784, e la stesura definitiva dell’ Antigone nel 1781. Si può ipotizzare che l’Alfieri scrivesse l’idea, in particolare il pezzo della morte di Emone che si uccide sul corpo di Mirra, tenendo presente la scena corrispondente in cui Emone si toglie la vita sul corpo dell’amata Antigone. Ma nella stesura, datata dall’autore al 24 dicembre 1785 e nella versificazione del 7 agosto 1786, l’autore ha rielaborato completamente la fine di Pereo; evidentemente egli ha sentito, ancora una volta, la necessità di variare la struttura della tragedia, organizzandola in modo autonomo dai modelli, e come dimostrerò, dal suo punto di vista secondo una formula più efficace.
Alfieri dà notizia della fine del giovane, come già avvenuta, all’inizio del V atto, a mio avviso, tenendo conto che nella II scena del V atto si colloca l’incontro di Mirra col padre risoluto a voler conoscere il segreto della figlia. Con la notizia drammatica del suicidio di Pereo, Ciniro si ripromette di far leva sulle conseguenze delle nozze non compiute da Mirra e di farle confessare il motivo del suo sconvolgimento. Con questa spiegazione, assumono un senso anche i versi finali dove la protagonista si rivolge morente alla nutrice, vv. 218-220:
Quand’io… tel chiesi, … / darmi …allora,… Euriclèa, dovevi il ferro… / io moriva…. Innocente;… empia… ora… muoio…
Empia, perché il suo segreto è trapelato e lei per autopunirsi si è trafitta con la spada del padre; oppure empia, perché ha causato col suo rifiuto la morte di un innocente. Forse entrambe le spiegazioni possono essere passate per la mente dell’Alfieri. Rimane il fatto grave che la figlia si è uccisa con la spada del padre e lui non è riuscito a impedirlo. Eppure Mirra era innocente, non come nell’episodio di Ovidio dove materialmente aveva compiuto l’incesto.
In più, mentre Mirra muore nelle braccia di Euriclea, l’unica “vera” madre, la coppia Cecri-Ciniro si allontana dalla figlia morente, senza nemmeno raccoglierne l’ultimo respiro. Penso al finale di una tragedia greca di Euripide, Eracle, dove l’eroe perseguitato da Giunone, ha fatto strage dei suoi familiari e lo accoglie amorosamente solo l’amico Teseo, cercando di aprirgli una prospettiva per l’avvenire. Mirra muore assistita sì da Euriclea, ma senza la consolazione di una speranza per il futuro.
Per dare la parola all’autore, egli era soddisfatto della sua opera, come dichiara nel Parere[28]: ciò mi risulta particolarmente significativo perché proviene da un artista che da se stesso pretendeva molto
Sull’andamento lento della vicenda prende posizione Branca[29] il quale insiste sul tono meditativo e interiore della Mirra e sulla tendenza dell’autore a sondare nel subcosciente. Ciò rende lo svolgimento della storia più lento e povero di azione.
Debenedetti[30]mette in evidenza soprattutto lo sforzo della protagonista di dover nascondere al di sotto della coscienza la sua pena d’amore: il suo dramma tutto interiore per trattenere la passione che vuol irrompere al di fuori e per primo utilizza strumenti di interpretazione psicanalitica della vicenda.
Steiner[31] svolge riflessioni di carattere diverso, ma utili per comprendere la ricezione del testo, osservando che il tema dell’incesto è uno dei temi preferiti dai romantici e circoscrive la fortuna della Mirra al periodo dominato dal Romanticismo, ritenendo la tragedia non più proponibile per la rappresentazione.
È vero che la fortuna della tragedia riguarda soprattutto la metà dell’Ottocento e soprattutto gli anni ’50 del secolo, quando ad interpretare l’infelice fanciulla fu invitata la famosa attrice Adelaide Ristori.[32] Nella seconda metà dell’Ottocento e soprattutto nel Novecento, la tragedia è stata messa in scena raramente. Se si eccettuano alcune rappresentazioni minori, due del 1949, bisogna arrivare a tempi relativamente recenti per ritrovarla in teatro, grazie a Luca Ronconi,[33] nella stagione teatrale 1988-89 del Teatro Stabile di Torino.
Fabrizi[34] coglie l’intima sostanza dell’opera: “La Mirra appare, fra le tragedie alfieriane, la più aperta e dichiarata affermazione dell’irrazionalità che sostanzia e domina la natura umana, della debolezza della ragione di contro a pulsioni profonde da cui l’uomo è avvinto e senza scampo travolto. Nulla di più lontano, evidentemente, da una illuministica ( e ottimistica ) concezione dell’uomo. Leggendo la Mirra si coglie la distanza tra l’Alfieri e il suo secolo ( e Voltaire, e Metastasio, e Goldoni).”
Maier[35] ribadisce l’interpretazione psicanalitica, già intuita da Debenedetti e sottolinea come l’amore di impossibile realizzazione di Mirra la spinga a soffrire una sorta di “pre-freudiano complesso di Edipo” al femminile.
Alonge[36] ha dedicato un’intera monografia alla vicenda della giovane, passando attraverso Ovidio, Alfieri, l’interpretazione della Ristori e la regia della messa in scena teatrale di Luca Ronconi. La lettura del saggio è stimolante e lo studioso afferma [37]: «Quella di Alfieri… è la storia di una re-pressione, mentre Ovidio ci dà la storia di una pressione, dell’urgere sfrenato della cieca frenesia fisica». A mio parere, la passione di Mirra in Ovidio era giustificata, almeno a livello testuale, dall’intervento di una delle Furie e in Alfieri dalla vendetta di Venere. Né Ovidio, né tanto meno Alfieri erano convinti della perversità innata della giovane; non si può nutrire dubbi per l’astigiano che si pronuncia in più circostanze a chiare lettere: “Mirra è infelice più che colpevole”. Del resto il critico deve ammettere nella protagonista una coscienza sofferente più che colpevole [38].
C’è nel libro di Alonge un capitolo interessante, intitolato: Vittorio Alfieri, il segreto del testo; difficile rendere conto degli spunti presenti in queste pagine dove l’autore cerca di cogliere il centro dell’ispirazione e del modo di lavorare del tragediografo[39]. Infatti egli fa riferimento alle pagine della Vita[40] in cui Vittorio parla del padre anziano che spesso andava a trovarlo, quando era a balia, mentre la giovanissima madre, alle sue seconde nozze, non si vedeva quasi mai.[41] Dopo la morte del padre, Giulia e Vittorio si trasferirono nella casa del patrigno, poi Giulia fu messa in convento. Riporto le parole dell’Alfieri:
E di questo avvenimento mi ricordo benissimo… E speculando poi dopo su quegli effetti e sintomi del cuore provati allora, trovo essere stati per l’appunto quegli stessi che poi in appresso provai quando nel bollore degli anni giovanili mi trovai costretto a dividermi da una qualche amata mia donna …Dalla reminiscenza di quel primo dolore del cuore, ne ho poi dedotta la prova che tutti gli amori dell’uomo, ancorché diversi, hanno lo stesso motore.
Viene da fare una considerazione in margine, tenendo conto di queste ultime parole della Vita ; anche gli amori di Antigone e Mirra possono essere contigui: il punto di svolta, che cambia natura agli affetti, è quando essi diventano passioni.
Così si spiega anche il significato della confessione che il tragediografo ci fa nella Vita, quando riflette, con molta sincerità e senza falsi pudori, sulla attenzione da lui riservata, dopo la partenza della sorella, a certi novizi del Carmine.
Secondo Debenedetti[42], citato da Alonge, l’atto dello scrivere è legato alla biografia di chi scrive e alla base della scrittura dell’astigiano c’è un trauma infantile, un «romanzo familiare» che si percepisce chiaramente nella Vita. Credo che tale « romanzo familiare » sia da leggersi prudentemente fra le righe nelle altre opere, in particolare nella Mirra.
Anche Branca[43] insiste sul carattere autobiografico dell’opera:
Così la Mirra, nata in una stagione fra le più felici delle rime di solitudine e di meditatività (non a caso ne ripete spesso accenti e modi), è la tragedia più lirica e in certo senso più autobiografica dell’Alfieri.
Debenedetti[44]sottolinea:
Il peccato, l’incesto sono la prefigurazione mitica, tragica – e anche spettacolare – di una certa impossibilità. E questo limite che per l’Alfieri era oscuro, era derivato da condizioni puramente di fatto, nella creatura si trasforma in una colpa: in una degenerazione dell’affetto in amore, dove forse in lui la sola degenerazione era stata quella di arroventarsi, di disperarsi, di vedere qualche cosa di mostruoso in quell’affetto, solo perché gli era negato, represso dalle circostanze materiali, e dal particolare temperamento della donna alla quale era rivolto.
Le osservazioni di Debenedetti si legano con le considerazioni di Alonge che ne costituiscono il proseguimento, nel capitolo dal titolo: La coppia parentale [45]; la tesi dello studioso è che i genitori di Mirra sono una coppia molto unita, fino a considerare Mirra una felice proiezione del loro amore. A questo gioco Mirra non ci sta: vuole partecipare dell’affetto che il padre riserva alla madre e finisce per odiare la madre come rivale. Ma non credo che Mirra sia una bambina viziata ( come sostiene Alonge).
Mirra è presa dal tremito ripetutamente da quel momento in poi e una giovane di diciassette anni, quale è l’età di Mirra, dichiarata da Alfieri, non riuscirebbe a resistere a tanta tensione e per tanto tempo, se fosse bambina viziata: cederebbe prima, anziché soffrire tanto a lungo.
Nel Parere[46] Alfieri sottolinea la verosimiglianza del personaggio di Mirra e percepiamo chiaramente l’orgoglio che egli nutre per avergli dato vita.
Sulla figura del padre posso aggiungere che nell’idea, rispetto alla stesura e alla versificazione, ho trovato un padre più all’altezza della situazione[47], perché cerca di togliere alla figlia la spada a lui sottratta; nulla di ciò rimane nella versificazione, in cui appare un padre lento nei gesti e privo di prontezza nel salvare la figlia. Insomma, ne vien fuori un personaggio modesto che poi si allontana con la moglie adorata, lasciando la figlia morire nelle braccia della nutrice. Conclusione davvero sconcertante e, forse, anche un po’ inverosimile. Dunque la figlia, in Alfieri, sarebbe per il padre, una proiezione del suo amore per la moglie, ma una proiezione poi rinnegata, se può lasciarla morire senza il suo conforto, sottolineandone la colpa come “empia”.
Alonge[48], ricordando ciò che ha osservato a proposito di Cinira nell’episodio ovidiano, rileva:
E d’altra parte ho cercato personalmente, all’inizio di questo libro, di sottolineare come in Ovidio ci sia qualcosa di malsano, che il gusto clandestino dell’incesto coinvolge anche il personaggio di Cinira. E la stessa cosa vale, mi pare, per il Ciniro alfieriano, benché in misura limitata.
Fa bene il critico a fare distinzioni fra Cinira in Ovidio e Ciniro nell’Alfieri: i loro comportamenti sono diversi, perché dettati da sviluppi diversi dell’azione. Ma Ciniro, a mio parere, respira l’atmosfera borghese, ben pensante, che lo vede lasciare nelle braccia della nutrice la figlia innocente di fronte alla morte. Conclusione amara, ma probabilmente condivisa dal pubblico che assisteva alle rappresentazioni.
Questa mia riflessione sembrerebbe, almeno in parte, contrastare con quanto si legge nel libro di Alonge[49] che riporta un giudizio del critico J. Janin[50] sulla rappresentazione della tragedia durante la tournée di Adelaide Ristori a Parigi, la cui interpretazione non teneva conto solo della Mirra alfieriana, ma anche dell’episodio ovidiano :
Elle [Mirra] est cent fois plus criminelle dans le poéme du Latin [Ovidio] que dans le drame de l’Italien [Alfieri], cette Mirra qui tient le mond attentif […] Ainsi cette admirable Ristori est bien la Mirra d’Ovide, et non pas celle d’Alfieri.
Per la rappresentazione, al Teatro Stabile di Torino, Alonge[51] sottolinea l’interpretazione decisamente freudiana data da Luca Ronconi del capolavoro alfieriano.
Sono da condividere in pieno le valutazioni che Alfieri dava sul personaggio, sottolineandone l’innocenza e l’infelicità. Mi piace riportare le parole dell’autore nel Parere [52]: “ma quanto sia la modestia, l’innocenza di cuore, e la forza di carattere di questa Mirra, ciascuno potrà giudicarne di per se stesso, vedendola.” Questa è la difesa più efficace che si possa fare di Mirra. Essa nasconde anche una parte dell’autore, il quale ha saputo ricavare da una “tragedia”di circa duecento versi delle Metamorfosi, dopo un’intelligente rielaborazione, una tragedia in cinque atti, del tutto originale.
[1] Ovidio, Metamorfosi, a cura di P.Bernardini Marzolla, con uno scritto di Italo Calvino, Torino 1979, p.XV.
[2] Il mito di Mirra è ambientato a Cipro, Antonino Liberale lo colloca nel Libano, per Igino Cinira è un re assiro; comunque sia Adone, Cinira, Mirra, Pigmalione, le cui vicende sono collocate e collegate nei ll. IX e X delle Metamorfosi, hanno una origine orientale. Il narratore è Orfeo e Ovidio se ne serve per presentare situazioni personaggi, formulare giudizi. Mirra, secondo la versione del mito, è una fanciulla trasformata in pianta e la sua provenienza è la Tellus Panchaia, isola favolosa del Mar Rosso in Arabia. Per ulteriori ragguagli cfr. P. Ovidius Naso, Metamorphosen, II, Buch VIII-XV, erklart von M.Haupt und Otto Korn, Weidemann, Dublin/Zurich, 19706, nota al v. 305 del l.X.
[3] Altre fonti attribuiscono la responsabilità della folle passione della fanciulla ad altre divinità; si veda Apollodoro, I miti greci (Biblioteca), a cura di P. Scarpi, Milano 2004, III 14,4 dove l’ira di Afrodite è la causa dell’innamoramento. Apollodoro , mitografo ateniese del II sec. a. C., probabilmente ha offerto materiale ad Ovidio per questo episodio.
Igino, Miti, a cura di G.Guidorizzi, Milano 2000, cap. 58, dà la seguente versione del mito: «Mirra era figlia di Cinira, re degli Assiri, e di Cencreide. Sua madre Cencreide affermò superbamente che sua figlia era più bella persino di Venere. Allora Venere castigò quella madre infondendo a Mirra un amore mostruoso, al punto che ella si innamorò del proprio padre. Per evitare che la ragazza si suicidasse impiccandosi, la nutrice intervenne; così, grazie alla nutrice, ella poté giacere col padre dal quale concepì un figlio. Perché questo non venisse scoperto, spinta dal pudore, si rifugiò nei boschi. Poi Venere ebbe pietà di lei e la trasformò in quell’albero da cui stillano gocce di mirra. Di lì nacque Adone che fece scontare a Venere le sofferenze della madre». Ovidio si avvicina a questa versione, ma non fa cenno alla pietà di Venere per Mirra e parla genericamente di dei che accolgono la sua preghiera di essere invisibile come donna.
[4] Per la lucida analisi della ripartizione retorica rinvio alle osservazioni esposte nell’edizione P.Ovidius Naso, Metamorphoseon, II, Haupt-Korn, cit., nel commento a X,320.
[5] Ivi nel commento al v.331 si cita Minucio Felice che testimonia la consuetudine di unioni presso i Persiani fra madri e figli e fra gli Egiziani e gli Ateniesi la possibilità di unioni con sorelle. Anche Eusebio allude al costume persiano di sposare sorelle e madri.
[6] Anche R. Alonge, Mirra l’ incestuosa. Ovidio Alfieri Ristori Ronconi, Roma 2005, autore di un saggio fondamentale per comprendere il personaggio di Mirra, ma anche tutte le problematiche connesse all’argomento, commenta a p. 14 sg del suo saggio i vv. 342-47 osservando che Mirra si sdoppia “in una sorta di psicomachia”.
[7] Il rinvio è presente in P.Ovidius Naso, Metamorphosen, II, Haupt-Korn, cit., nota a X, 372.
[8] Alonge, Mirra l’ incestuosa, cit., p.18, tralascia il confronto con l’Ippolito di Euripide e evidenzia come il cappio dell’impiccagione, poi sventata dalla nutrice, è costituito dalla zona (il corsivo è dell’autore), la cintura femminile di cui la donna sposata si privava per prepararsi all’unione maritale.
[9] Vedi P.Ovidius Naso, Metamorphosen, II, Haupt-Korn, cit., nota al v. 377. Il commentatore accenna all’analoga decisione delle due donne di morire, ma non si sofferma ulteriormente per notare somiglianze e differenze.
[10] Cfr. vv. 431-36. Alonge, Mirra l’ incestuosa, cit., p. 23 sg. si sofferma su questo particolare. Nelle feste in onore di Cerere-Demetra le matrone si astenevano dai rapporti sessuali con i mariti; nel secondo giorno della festa, per celebrare il ritrovamento dei Proserpina da parte di Demetra, le madri di famiglia si riunivano alle figlie, tenendo ancora lontani i mariti. Alonge ne deduce che: “l’infrazione di Mirra è tanto più vergognosa perché mina e distrugge nello stesso istante un triplice vincolo: quello marito-moglie…quello madre- figlia… quello figlia- padre”.
[11] Diverso è l’esito del tentativo della nutrice di Fedra nell’Ippolito di Euripide, come ho osservato alla nota 10, ma molto diversi anche i personaggi maschili.
[12] Alonge, Mirra l’ incestuosa, cit, p. 27 sg.: il critico parte dalla lettura del saggio di J. Fabre-Serris, “Mythe et poésie dans le ‘Métamorphoses’ d’Ovide. Fonctions et significations de la mythologie dans la Rome augustéenne » , Klincksieck, Mayenne 1995, p.197. In sostanza si tende a enfatizzare l’ambiguità che circola nel testo a proposito della frase della nutrice che, riferendosi alla fanciulla che porterà a Cinira, dice “Par est Myrrhae” al v. 441 che rinvia al v. 364: “Similem tibi”: sono le parole con cui Mirra risponde al padre per definire le caratteristiche dell’uomo che sarebbe disposta a sposare.
[13] Cfr. Ov. epist.6, 164; ibidem 9,153 e 12, 46.
[14]Egualmente efficaci le traduzioni di Giovanna Faranda in Le Metamorfosi,II, Milano 1994: “e favorisce l’unione maledetta dei due corpi” e di Piero Bernardini Marzolla, in Metamorfosi, con uno scritto di Italo Calvino cit.: “E unisce i due corpi nella dannazione”.
[15] Il Thesaurus spiega il termine con “impurus”, “turpis”, “impudicus”, “ de eis qui in pudorem peccant” e aggiunge “ incestus, adulter, sim.”E’ presente nel Thesaurus la citazione dell’aggettivo, riferito a cose materiali riferita al nostro passo.
[16] Alonge, Mirra l’ incestuosa, cit., p.16 sg.: “ Ma fino a che punto possiamo giurare sulla assoluta innocenza di Cinira?... Cinira ha accolto nel proprio letto una ignota giovane… e dispiega tutta la sapienza di un uomo di mezza età . Egli si comporta con la figlia al v. 361: “Virginei Cinyras haec credens esse timoris”, con la stessa discrezione che mostra con l’amante adolescente: v. 466 sopra citato …Il fantasma che ossessiona il maschio adulto di Ovidio è il rapporto di avvicinamento a quell’impasto di gracilità e di riservatezza che è costituito dalla donna che si apre per la prima volta all’esperienza traumatizzante del sesso.”
[17] Alonge, Mirra l’incestuosa,cit., p. 19: “Ma Ovidio ha la capacità, sì, di penetrare nel cuore di Mirra, ma pure quella- inedita e sconvolgente- di porre a nudo anche il punto di vista del padre (il corsivo, al solito, è del saggista), le sue pulsioni occulte, inconfessate e inconfessabili, mentre in Alfieri (almeno a prima vista…) il dramma dell’incesto sarà colto essenzialmente dall’angolo visuale della donna, della figlia…Ovidio racconta che le feste di Cerere impongono alle donne di astenersi dalle pratiche sessuali… e che la nutrice gioca propriamente su questa debolezza di Cinira, costretto all’astinenza. L’uomo vuol sapere quanti anni ha la giovane… Ovidio arriva ad indovinare la natura pedofila di Cinira . Ma la pedofilia , a sua volta, è solo il risvolto della medaglia di un’altra perversione… la pulsione incestuosa.”
[18] Nell’ Ippolito e nella Fedra la passione della matrigna per il figliastro non sarebbe di per sé incestuosa, può esserlo solo, per così dire, giuridicamente.
[19]V. Alfieri, Vita, a cura di L.Fassò, Asti, Casa d’Alfieri, 1951, 2 voll.
[20]V.Alfieri, Mirra,a cura di Binni-Scrivano, Firenze 1960, p. XLVII sg.
[21]V. Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978.
[22] V. Alfieri, Tragedie, ed.crit. vol XVII, Mirra, a cura di M. Capucci , p.105 sg.
[23] Capucci, Mirra, cit., p. 105 sg.
[24] Quasi tutti i commentatori, che ritengo inutile citare, mettono in evidenza che Cecri è più moglie che madre.
[25] Ivi, p. 109.
[26] Euripide, Medea , vv. 275 -77 [ a proposito di Fedra innamorata di Ippolito]: Corifea: Come è debole e distrutta nel corpo! Nutrice:E come no, se da due giorni è senza cibo? Corifea: Forse per delirio o perché vuol morire? Nutrice: Vuol morire e rifiuta il cibo, a rinunzia della vita.”
[27] L’idea della Mirra, secondo Capucci, Tragedie, Mirra, cit., p. 105 risale a “ 1784. 11 Ottobre. Wedlezeim in Alsazia”. Aggiunge Capucci: “ L’indicazione fu apposta in un secondo momento e coincide solo parzialmente con quella che figura in calce all’idea e coeva ad essa.” Alla fine dell’idea si legge: “ Martinsbourg 11 ottobre mattina tra 9, e 10.1784 ”.
[28] Alfieri, Parere sulle tragedie dell’Alfieri e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, cit.
[29] V. Alfieri, Agamennone. Mirra, a cura di V. Branca , Milano 1986, p. 151 sg.
[30] G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, Milano 1995, p. 83 [ il libro in realtà fu scritto fra l’ottobre 1943 e il maggio 1944, come testimonia Renata Debenedetti nell’Avvertenza , p.7]
[31]G. Steiner, La morte della tragedia , Milano 19992, p.186 sg.[ l’edizione in lingua originale è del 1961].
[32] A. Ristori, Ricordi e studi artistici, a cura di A. Valoroso, Roma 2005 [ nel testo si cita la testimonianza della Ristori, come attrice nelle vesti di Mirra, pubblicata già nel 1887].
[33] Alonge, Mirra l’incestuosa, cit.
[34] A. Fabrizi, Le scintille del vulcano, Modena 1993, p.281. Le posizioni qui espresse sono riconfermate nell’edizione dello stesso, Mirra, Modena 1996, dove lo studioso offre una preziosa e unica edizione commentata della Mirra, con abbondanti riscontri e nutrita bibliografia, punto di partenza essenziale per lo studio di quest’opera.
[35] V. Alfieri, Mirra, introduzione e note di B. Maier, Milano 19933, p. XXIII sg.
[36] Alonge, Mirra l’incestuosa cit.
[37] Alonge, Mirra l’incestuosa, cit., p.15.
[38] Ivi, p. 19: “ Alfieri coglierà bene questa sorta di sofferenza morale della Mirra ovidiana, pur nel suo operare eversivo, e ne farà tesoro per la propria tragedia. D’altra parte, se così non fosse, se la Mirra del poeta fosse solo oscenamente spudorata nel suo slancio criminale, non avrebbe meritato le lacrime dell’Alfieri.”
[39] Ivi, p. 44: “E’ possibile accostarsi ad Alfieri, trovarlo moderno, contemporaneo, se non proprio amabile. Perché il personaggio è un gran personaggio, e ha intuizioni straordinarie, alcune sorprendentemente pre-freudiane. La Vita è eccezionale”.
[40] Alfieri, Vita, a cura di L Fassò, cit.
[41] Ivi, p.2 sgg.
[42] Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, cit, pp. 51-111.
[43] Alfieri, Agamennone. Mirra, a cura di V. Branca, cit., introduzione alla Mirra, p. 159.
[44] Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, cit.,p. 85 sg
[45] Alonge, Mirra l’incestuosa, cit., p. 50-71.
[46] Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pagliai, cit.
[47] Alonge, Mirra l’incestuosa, cit., p. 87.
[48] Ivi, p.67.
[49] Ivi, p.131.
[50] J.Janin, La semaine dramatique, in « Journal des Débats », 25 juin 1855.
[51] Alonge, Mirra l’incestuosa, cit., p. 171.
[52] Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche , a cura di M. Pagliai, cit..
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