L. Labardi                                                       

 

                          GIOVANNI   PASCOLI  PROFESSORE   E  IL  LATINO

 

   Se si sfogliano le pagine della voluminosa biografia, arricchita da frequenti lettere del poeta: “Lungo la vita di Giovanni Pascoli”1 , si rimane veramente impressionati dalla intensità di sentimenti che emana da queste pagine, dalle sofferenze del Pascoli dovute alle disgrazie familiari e alle difficoltà economiche,  dalle fatiche sostenute con ammirevole forza d’animo, imposte dalla sua attività di insegnante di Latino e Greco nel Liceo, ma soprattutto dal suo precoce interesse e dalla sua straordinaria competenza nelle materie classiche.

   Già  nel 1867, quando Giovannino passava in terza ginnasiale, attuale terza media, nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino2, padre Cei,3 che era il suo insegnante di latino, che lo formò in modo determinante, ne

 sottolineava le eccezionali attitudini. Di lui si occuperà anche in seguito quando il poeta  sostenne l’esame di licenza liceale a Firenze.

 Infatti in terza liceo il Pascoli si trasferì a Firenze, presso l’Istituto Scolopico di San Giovannino e ebbe come maestro padre Ricci, figura altrettanto determinante sulla sua formazione1.

Al termine del liceo Giovanni si iscrisse alla Facoltà di Lettere di Bologna, grazie ad un sussidio ottenuto con una prova assai dura; allora, come del resto quasi sempre, le sue condizioni economiche erano piuttosto precarie. A Bologna insegnava  anche il Carducci che lo apprezzò subito; anche gli altri maestri non mancarono di notarlo, soprattutto il Gandino, con cui poi il Pascoli prenderà la laurea: a tutti era nota la sua solida cultura  generale  e soprattutto la sua  estrema familiarità con la lingua latina; Severino Ferrari ,di qualche anno più giovane, prese lezioni di latino da lui e poi diventerà il suo miglior amico.

Ancora studente, per migliorare le sue condizioni economiche , cercò di ottenere un incarico di supplente Finalmente, nell’anno scolastico ’77-’78  ebbe alcune supplenze nel Ginnasio privato “Guinizzelli” a Bologna. Pare che il Carducci avesse messo la “parolina buona”, come era solito fare con i suoi allievi prediletti; tuttavia, alcune lettere del preside Atti allo stesso Carducci,  riguardanti il Pascoli supplente  nel

Ginnasio comunale in varie classi (fino a 62 alunni per classe) lamentano le frequenti assenze del poeta dalle aule scolastiche.2

Il 17 giugno 1882, dopo varie vicissitudini, come è noto legate anche alle simpatie socialiste del poeta, e alla sua  breve permanenza in carcere, Pascoli conseguì la laurea in Lettere con una tesi di argomento greco. Nella ricerca, oltre ad osservazioni metriche, per la metrica il poeta ebbe un interesse costante, emergevano competenze  di carattere storico : di “una storia poetica”,  più che di analisi estetica; vi è presente, in poche parole, il tono dell’introduzione alla “Lyra”, che pubblicherà  più di dieci anni dopo, quando avrà sulle spalle anni e anni di duro insegnamento.

Nella biografia della sorella Maria si segue la sua affannosa ricerca di una cattedra di Liceo, soprattutto rivolgendosi al Carducci, che gli aveva promesso una sistemazione in un Liceo di Teramo, timoroso però delle idee politiche dell’allievo e anche del suo portamento come supplente. Poi venne inaspettata  la nomina nel Liceo “Duni” di Matera, con decreto ministeriale  21 .9.’82. Per quello che ricorda la sorella Maria, non sempre benevola verso il Carducci, sarebbe stato l’interessamento del Gandino, insegnante di Latino a Bologna, a fargli ottenere l’incarico. Il Pascoli partecipò la notizia al Carducci, che non si sbilanciò troppo e gli rispose con una esortazione: “Si porti bene e avanti”. Al Liceo “Duni” di Matera  rimarrà per due anni, soffrendo per la lontananza della famiglia, i pochi superstiti, lagnandosi spesso che il “vivere e l’alloggio” erano troppo cari e sperando sempre di crescere di stipendio e di grado, definendosi: “Cavaliere errante dell’insegnamento”. Non gli mancavano idee  di lavori per ottenere qualche guadagno straordinario, come si legge nella “Vita”3: “ Non aveva alcuna possibilità … E anche il tempo gli difettava perché, oltre la scuola che faceva con la massima diligenza, aveva l’incarico … di riordinare la biblioteca del Liceo. Poche ore settimanali gli restavano libere.” Certo che la sua vita doveva essere difficile se ancora a dicembre si lamenta di non aver ancora ricevuto  il suo primo stipendio. Non possiamo pensare che la sorella Maria ne volesse fare un martire dell’insegnamento! Di fatto il poeta  non aveva i soldi neppure  per comprarsi i libri  e durante le ore di lezione  era costretto a  farseli dare dagli alunni.

Ma lavorava con impegno, come dimostra una lettera1 non datata e indirizzata all’amico Severino Ferrari:

“Mi occupo anche di questioni scolastiche , specialmente pel greco  e latino nei Licei. Poi concorro al posto di titolare  di  prima classe , Greco e Latino, nel Liceo di Palermo…” e sempre indirizzandosi al Ferrari  il 23.5.’832 : “ Per darti  un’idea  della mia serietà , io non ho mancato nemmeno una volta a scuola. Anzi sono in credito di certe supplenze  sporadiche”. Contemporaneamente all’attività scolastica conduceva studi sulla favola in Grecia e a Roma e faceva traduzioni dal latino e dal greco con l’intento di fare un libro per le scuole, ma per il momento non trovò un editore pronto a finanziarlo. Un’idea abbastanza chiara sui progetti di didattica  latina del Pascoli in quegli anni  si ricava da una lettera 3 da Matera, 28.10. ’83 all’amico Raffaello Marcovigi: “ Voglio fare per alte ragioni didattico  morali, un piccolo commentario della rivoluzione italiana ; voglio dire delle nostre guerre. Consisterà in una piccola antologia di proclami, di aneddoti parlamentari e guerreschi, di descrizioni, di narrazioni, di discorsi, di canzonette popolari, di inni di guerra , riguardanti soprattutto  il ’59 e il ’60, Vittorio Emanuele e Garibaldi, Cavour e Mazzini. Il tutto deve essere tradotto in latino. Parlo sul serio. Qui in questa selvatica città… non c’ è raccolta di giornali, nulla. Anzi è questa la ragione che mi incita al lavoro. Non voglio che i miei giovani  conoscano Germanico  e ignorino Garibaldi; che sappiano dire cose molte sul regifugio e niente sulle battaglie  di S. Martino e del Volturno. Nessuno farà conoscere loro, se non mi ci metto io, un poco della storia per la quale sono e pensano, e allora non conoscendola , diventerebbero dei camorristi come tanti altri, e non solo non  sarebbero buoni latinisti, ma sarebbero pessimi cittadini”. Quando scrive questa lettera  il Pascoli ha ventotto anni, è ancora molto giovane, nonostante ciò ha già chiaro che lo studio del latino non deve essere erudizione, arida  filologia, ma deve contribuire alla crescita morale e civile dei giovani, deve educarne il gusto , deve farne dei cittadini retti e operosi .

   Giustamente osserva il Vicinelli4 che il periodo di Matera fu “un periodo più di preparazione  e di meditazione che di  lavori concreti… in cui si comincia a stampare i suoi versi in periodici importanti e a parlare di lui… Egli vive ancora con i suoi classici greci (specialmente Saffo) e latini (in particolare Orazio e i favolisti) e, pur invano, pensa già ad un poemetto latino per il concorso di Amsterdam…C’è anche qualche velleità di ispirazione storica … con quella specie di “commentario” della rivoluzione risorgimentale, i cui documenti, secondo il Pascoli, dovevano essere tradotti in latino”.

   Finalmente  il 23.8.’84 lo troviamo a Bologna che scrive alle sorelle5, dando loro una notizia  inattesa ma  gradita: “ Appena arrivato ho ricevuto lettera da Guido Mazzoni, dove mi si dà la notizia certa  che andrò a Massa…” 

   A Massa rimarrà dall’ottobre ’84 al settembre ’87. Ripercorrendo le pagine della biografia della sorella  relative a questi anni, si trovano molte cose preziose  per mettere a fuoco la figura del Pascoli come professore , che emerge netta da questa biografia. Giovanni si lamenta spesso con le sorelle per il carico di lavoro, come nella lettera  datata Massa  21.11.’846: “In questi giorni ho avuto qualche disturbo. Coi nuovi regolamenti a me erano assegnate sette ore  di più alla settimana e un relativo compenso di sei o settecento lire. Ora ad un tratto c’è tolto l’aumento delle ore  (il che non è male) e dello stipendio, il che è malissimo.”

Pur fra le ristrettezze , dovute al fatto che anche a Massa, come a Matera,  ritardano gli stipendi dei primi mesi, è in cerca di una casa dove possa abitare con le sorelle. La sua vita è affannosa. La maggior parte del tempo è occupata  dalla scuola , avendo più di trenta ore settimanali di lezione  tra Liceo e le tecniche e qualche lezione privata.

 La sua era una vita faticosa e di continua passione  per non potersi mai dedicare a nessuno dei tanti lavori  che avrebbe voluto fare. 1Anche scrivendo a Severino Ferrari il 2 .11. ’85 torna a lamentarsi del carico orario: adesso ha due ore in più nell’indirizzo tecnico, che non gradisce, se lo qualifica  come “via crucis tecnica”, mentre la paga è rimasta allo “statu quo”. Immerso nei debiti fino al collo, teme continuamente il sequestro  e si domanda come si può lavorare  con questo timore addosso.  Si lamenta che non gli venga concesso un sussidio, cerca di fare progetti di lavori che possano essere remunerati e infine, poiché è ancora “reggente” , fa domanda per la titolarità, che avrebbe comportato anche miglioramenti economici. La lettera, inviata al Ministero della Pubblica Istruzione datata Massa Carrara 3.2.’86 merita di essere riportata, tanto è importante  per illuminarci sul suo metodo di insegnamento del latino e greco nel liceo e più in generale sulla sua condizione di insegnante2.

“A Sua  Eccellenza il Ministro della Pubblica Istruzione:

Eccellenza, io sottoscritto, reggente di lettere latine e greche  nel 1882-83-84 a Matera, nel 1884-85-86 a Massa Carrara, chiedo di essere promosso a titolare, se all’E.V.  paia che io abbia dato di capacità prova  non troppo manchevole e di diligenza  promessa non dubbia.

   Ho sempre cercato e cerco che  i miei  alunni  acquistino quella famigliarità della lingua e dello stile latino, e aggiungo del greco, che delle vecchie scuole era grande, sebbene, forse unico pregio. Ma voglio  che la famigliarità , come è meno intima, pel tempo che non si dà ora  come allora  tutto a questi studi, sia, per la scienza che è più sicura, anche più rispettosa e discreta: desidero che quanto più esattezza è ora  nelle cognizioni tanto più squisitezza  sia nel gusto. Perciò faccio leggere molto, usando a questo fine nel Liceo i testi già studiati nel Ginnasio; le leggi e le regole le faccio cercare riconoscere ordinare di sui testi a mano a mano. A sceverare l’arruffio che di parole e di cose potesse farsi nei cervelli degli sbadati e degli attoniti, uso specialmente l'esercizio di versione  in latino e in greco, che voglio composta di frasi non iscavizzolate nei dizionari ma traspiantate con garbo dagli autori stessi. Quindi faccio che tra il testo latino e greco che si legge e i passi di classici italiani  che si traducono  sia molta relazione d’argomento e di stile, sicché riesca poi  nettissima la differenza  delle due lingue.

   Distinguo nella lettura dei classici la interpretazione dalla traduzione . Interpretando, non rifuggo di esporre i modi, recenti e anche barbari, di dire; ma non voglio a questi dare  come una sanzione scolastica , né lasciar credere che all’orazione degli antichi , esatta concreta decorosa, corrisponda davvero quella tal lingua incerta e astratta, quel fraseggiare sgangherato, quel periodare sciamannato. Anzi, passando dal modo recente a quello più classico o più popolare, faccio sempre notare  come si guadagni in chiarezza  e in gentilezza. E in generale dopo aver mostrato quanto questa “dura custodia matris”, questa ideale presenza  della antichità severa, sia utile, insegno quanto sia amabile. Perciò, mediante il poligrafo, faccio agli alunni un florilegio di poesia  e di prosa, greca e latina, col quale  non imparino solamente  la storia della letteratura, ma e si esercitino genialmente  e restino pensosi e commossi.

   Giudichi ora l’E.V. se io sia nella via diritta e voglia- e i miei superiori presenti e passati m’hanno veduto procedere  in quella con amore e coscienza- incoraggiarmici anche la E.V. con l’altissima approvazione sua…”

   Nonostante le amarezze il Pascoli continuava a lavorare con scrupolo. Ad un certo punto si profilò anche la possibilità  di essere nominato professore straordinario di grammatica latina e greca nell’Istituto Superiore di Firenze. Il Pascoli sarebbe stato senz’altro in grado di ricoprire quell’incarico, ma il Carducci, in una lettera al Ferrari , aveva avanzato delle riserve, perché secondo lui non sapeva il tedesco  e non avrebbe potuto affiancare degnamente il Vitelli a Firenze. Osserva invece la sorella Maria3 che “Dai suoi quaderni giovanili parrebbe il contrario… Certo non lo parlava… col tempo poi divenne padrone del tedesco, non solo filologicamente ma anche metricamente, non per ammirazione  che avesse di quei “barbari”, ma per provare a sé stesso che l’Italia sapeva far meglio di loro e da sé. Che dispetto provava  che l’Italia  per le sue scuole mendicasse  i suoi libri dai tedeschi!”. Sarà stato senz’altro  anche questo uno dei motivi che lo induceva a non risparmiarsi in nessun modo  per offrire alla scuola  libri scritti con amore, oltre che con competenza.

   Indubbiamente sorprende  che il suo Maestro, il Carducci, nei fatti, non a parole,  non l’abbia sostenuto abbastanza in questi anni difficili, per gratificarlo , Vitelli a parte,  con un incarico universitario  che il Pascoli avrebbe ricoperto degnissimamente. Eppure, scorrendo la biografia della sorella, si viene a sapere che il Carducci è uno che si dà da fare per gli allievi e solleva grande sconforto che abbia favorito il meno valoroso Biadene piuttosto che il grande Giovanni. E mentre gli altri si collocavano in posti di prestigio  egli era ancora a Massa, a fare la gavetta,  senza sussidi o altre facilitazioni per portare avanti i suoi studi.

Un giorno a Massa capitò il professor Vitelli per un’ispezione: abbiamo la relazione riportata dal Vicinelli 1io riporto  la parte più significativa , dove si sottolinea che il prof. Pascoli è “ un dotto e valoroso insegnante, che ha idee perfettamente esatte  intorno allo scopo degli studi classici nelle scuole secondarie e il metodo più acconcio per  raggiungerlo. Il prof. Pascoli  ha rara versatilità di ingegno, gusto squisito, studi larghi  e cognizioni precise, così in lingua e letteratura greca…come latina”.

   Nonostante questo elogio e grande riconoscimento da parte dell’illustre e apprezzato Vitelli, le cose non cambiano per  il Pascoli, così in una lettera a Severino Ferrari, non datata2, confida di non poterne più di alzarsi alle cinque  e di andare a letto a mezzanotte, “passando di lavoro in lavoro, ossia di noia in noia” e la sorella Maria aggiunge che aveva lezioni private… e tanti temi da correggere : “Quanti ne aveva  sempre di questi temi  e con che diligenza li rivedeva!”.

   Sfuma, nonostante l’interessamento del Carducci e del Gandino, la possibilità di un trasferimento a Bologna  e per Pascoli continua il calvario e il disgusto.

  Ma alla fine del l’85 gli fu comunicata la notizia  della promozione a titolare di terza classe; inizialmente gli era stata assegnata la sede di Faenza poi  commutata in quella di Livorno. Qui rimane dall’ottobre ’87 al novembre ’94. Così ad ottobre prende servizio al Liceo di Livorno, lavora con passione e accarezza la possibilità di un posto all’Accademia , ma confida a Severino che  ci sono altri concorrenti; anche per questo motivo si propone di farsi un titolo in più scrivendo un libro“ in prosa, perché  i versi valgono negativamente”; ha in progetto anche la stesura di un poemetto in versi latini, dal titolo “Margites”. La lettera da cui si ricavano queste preziose informazioni  è indirizzata al Ferrari, ma non è datata3: in essa il Pascoli confessa il proposito di scrivere  quindici gruppi di poemetti e di voler fare un libro di lettura  per le scuole secondarie inferiori e specialmente per le scuole tecniche dal titolo: “Diritti e doveri del cittadino”, egli entra più nei dettagli:“Sarà un libro di  prosa varia e calda e severa, con molti racconti, con estratti… da Platone, da Dante, da Shakespeare, da Omero, da Virgilio, da Victor Hugo, con grande unità di stile , con molta pulizia di lingua, con immenso sentimento di italianità, con fiera e virile tendenza… Per esempio, dove si tratta  del rispetto alle leggi, anche che non vi piacciano, anche ingiuste, io darei in forma cristallina “Il Critone”, brevissimo:un componimento… Voglio fare un’opera d’arte. Le parti di ragionamento, un qualcosa ad imitazione  dei “Pensieri” di Leopardi, di Pascal, etc.  Eh? Il tutto dovrebbe essere un tesoro di modelli di componimenti, che ora non si sa come farli nelle scuole…”.

   Il posto All’accademia sfumò, mentre col nuovo anno scolastico ebbe, oltre le ore al Liceo e, come sempre, le lezioni private, anche  un incarico al Collegio di San Giorgio dell’Ardenza.

   Nell’estate dell’89, stando alla testimonianza di Maria4 : “Si alzava prestissimo e in quelle prime ore del mattutine si occupava di lingua e letteratura e metrica tedesca. Nelle poche ore del giorno che poteva aver libere dal San Giorgio e dalle lezioni private si dedicava ai suoi amati autori latini e greci. Questi studi severi  erano per prepararsi a fare  dei libri scolastici che vagheggiava.”

   Nel ’90 il poeta  accolse in casa Placido, il figlio del cugino David che non aveva i mezzi per farlo studiare. Fino ad ottobre gli insegnò privatamente: il ragazzo aveva finito le elementari e doveva iniziare il Ginnasio. Disponiamo di alcune indicazioni  circa il metodo di insegnamento seguito, anche questa volta attingendo dalla testimonianza di Maria5: “Da principio lo rafforzò  nella grammatica italiana, poi passò a quella latina, con un metodo nuovo e accelerato, chiarissimo. Declinazioni a modo suo, coi casi diretti  separati dagli obliqui; regole scritte da sé, anticipando le più difficili ; coniugazione contemporanea  dei verbi regolari e irregolari, con esercizi che comprendevano un po’ di tutto. Non voleva mettere  senz’altro lo scolaretto sulla strada piana, voleva che si abituasse agli scogli.”

    Intanto i suoi lavori procedevano e nel luglio del ’91 pubblicò presso Giusti, di Livorno, cinquanta copie di cinquantasei pagine  delle “Myricae”, in occasione delle nozze dell’amico Raffaele Marcovigi.

   Ma  è ancora la scuola al centro dei suoi interessi, mentre gli assorbe tutto il suo tempo. Del pesante orario si lamenta  anche con Padre Pistelli, che insegnava nell’Istituto degli Scolopi a Firenze, in una lettera  come  testimonia il Vannucci1. Il Pistelli risponde al poeta  che gli aveva chiesto se si trovava nelle sue stesse condizioni, dicendogli che anche lui non viveva meglio perchè insegnava tutte le materie letterarie in quarta e quinta ginnasiale, con cinquantacinque scolari, aggiungendo:“Così svaniscono il tempo e l’animo e il cervello e l’inebetire è fatale”.

   Sempre sullo stesso argomento sollecita anche Severino2, lamentandosi  che nei giorni feriali ha dieci o undici ore di lezione  e non ha tempo di scrivere lettere, arriva persino ad affermare : “Maledico il destino che mi condanna  a tanto ingrato e forzato lavoro”.Per questo gli scrive di domenica. Chiarisce che ha ventiquattro ore di lezione solo al Liceo, con orario maggiorato, ma con stipendio eguale a quello dell’anno passato. Poi dà indicazioni sommarie  sui suoi progetti in merito a libri scolastici: “Una collezione  di “libri di lettura classica” … destinata a rendere agevole  e dilettevole nelle scuole lo studio del latino e del greco; da tenere il giusto mezzo tra i gravissimi e i tedeschissimi libri della collezione  Loescher, le cui note sono (lo so per prova) affatto inutili ai ragazzi, e i libri qualche volta geniali sebbene imperfetti, del Bindi etc. Eccone i saggi:

“L’anno romano”. – Feste, tradizioni, novelle, riti romani: tratti da Ovidio, Tibullo, Properzio, Orazio, Marziale, Stazio e altri, con grande parsimonia- specialmente dai “Fasti”, s’intende- che facciano rivivere  la vita antica. Disposizione secondo mesi e giorni . Due colonne di note. A sinistra: l’esposizione in arguta e limpida prosa  del contenuto del testo, con la maggiore erudizione pittoresca  e messa senza parere. A destra: illustrazione grammaticale e metrica e lessicale. Il libro deve, secondo i vigenti programmi che assegnano alla terza ginnasiale  Ovidio e Tibullo e la metrica del distico elegiaco, servire alla terza ginnasiale.

 

“Giambica e Melica Romana”.- Una bella antologia  di Catullo e di Orazio specialmente, con anche posteriori, con tutta la storia della lirica romana.

 

“Giambica e Melica greca”.- Un’antologia di lirici greci .

 

   Ma fermiamoci per ora all’”Anno Romano”. L’editore intelligente potrebbe farne un libro da non cader più dalle scuole, se curasse anche l’eleganza del formato, la nitidezza dei tipi e l’inserzione di qualche figurina  tratta da monete, da vasi, da bassorilievi e via dicendo. Io, con tutto il mio da fare, potrei presentare il ms. ai primi di marzo. Ora  dimmi tu qualche cosa. Quanto potrei pretendere ? Ma l’importante sarebbe  di poter avere qualche cosa alla firma del contratto”.

 

   L’editore Giusti mostrò più interesse per i libri scolastici che per i libri di versi, come ricorda Maria 3:“ E subito combinarono di cominciare dall’ “Antologia della lirica Romana” che, nel disegno di Giovannino rappresentava il VI vol. della collezione “Nostrae litterae”… Così restava in disparte l’“Anno romano”. Nella primavera del’ 92 venne anche l’inaspettata notizia  della sua vittoria al concorso di Amsterdam con il poemetto in latino “Veianius”; in molti si congratularono con lui4 auspicando anche un suo inserimento nell’università ma egli per il momento si sarebbe contentato di un incarico di presidenza, che gli avrebbe consentito l’esonero dall’insegnamento e molto tempo per gli studi.

   Nell’estate Giovanni stava lavorando alla “Lyra romana”: egli non intendeva servirsene come titolo  per entrare nell’università (vien da pensare a tanti giovani rampanti di oggi, che con qualche articolo già si sentono in diritto di aspirare ad una cattedra universitaria e le nostre università ormai pullulano di insegnanti e di insegnamenti, fino al punto di disorientare gli alunni, con tanta scelta!!!). “ Non ci pensava nemmeno. Egli voleva  dare qualche buon libro alla scuola italiana  e voleva  seguire i suoi ideali di arte  e di studio…”1

L’iniziativa era guardata con interesse  anche dall’amico Pistelli il quale il 18. 7.’92 gli scrive2: “Applaudo di gran cuore  all’idea sua di pubblicare intanto la “Lyra romana”, poi altro. C’è proprio bisogno di un lavoro come Ella dice , “tra lo stil de’ moderni e il sermon prisco” e nessuno può farlo  bene come Lei… Ma vede a  che siamo ridotti in fatto di commenti classici! A quei guazzabugli (le eccezioni son troppo poche) delle edizioni Loescher che non hanno nessun valore filologico né critico, perché sono pure compilazioni (nel senso etimologico) di roba tedesca, ed hanno un valore didattico assolutamente negativo!… Siamo fuori di strada. Non solamente lei farà un buon lavoro, ma una buona azione ed utile  per le nostre scuole. E metta pure francamente e liberamente (Pascoli gli aveva chiesto un parere  circa l’inserzione  di poesie amorose) tutto quel che crede necessario di poesie amorose. Io credo che nessun giovane sia stato né possa  mai esser corrotto da Orazio e da Catullo. Del resto quando leggono questi autori hanno ormai tale età ed esperienza che non  c’è pericolo che arrossiscano. Il pericolo in questi casi nascerebbe soltanto dalla poca serietà del maestro.”

 Come si vede, il Pistelli era sulla stessa lunghezza d’onda del Pascoli. Apprezzamento analogo  a quello già espresso nella lettera del 14.6.’92, il Pistelli riconfermò a proposito del poemetto premiato ad Amsterdam il “Veianius”3:“Mi dispiace di non potere e di non saper esaminarlo qui; ma son convinto di non esagerare, e di non offendere nessuno, affermando che oggi  non c’è in Italia chi sappia  scrivere dei versi latini come questi del Pascoli. Perché … son veramente  dei versi; versi freschi spontanei, di getto, e non, come accade spesso, delle cuciture o infilzature  di frasi racimolate qua e là, scartabellando i dizionari poetici. Se in Italia si avessero a cuore gli studi latini… questo “Veianius” doveva essere conosciuto e apprezzato ben altrimenti e non già perché ha avuto il primo premio ad Amsterdam, sì perché scopre nell’autore  un poeta vero e un latinista vero”.

   Poi finalmente , gradito, arrivò l’apprezzamento del Carducci, per il “Veianius”, quindi solo per la sua     attività di poeta latino; delle “Myricae” nessuna allusione: il poeta se ne rattristò. Intanto arrivava l’aumento sessennale, ora il suo stipendio era di 2970 lire. Ma il Pascoli era stanco dell’insegnamento , confessava anche che  gli pesava dover parlare a lungo.

   A metà  settembre del  ’93 Ferdinando Martini, Ministro dell’Istruzione, gli inviò una lettera  per informarlo che lo aveva scelto  a far parte di una commissione  di altri insegnanti di Latino e Greco e lo invitava a Roma per i lavori4; Giovanni acconsentì lieto anche di poter vedere Roma e trarne ispirazione per i suoi poemi latini. La commissione  doveva dare una risposta  ad alcuni quesiti posti dal Ministero e il  Pascoli fu incaricato della stesura delle risposte.  Il documento, prezioso per le indicazioni che vi si ricavano, è pubblicato per intero come  indico in nota5 .

 

 

“Il primo quesito del Ministero era il seguente:“ Indipendentemente  dall’attuale ordinamento degli studi classici, quali possono essere le  cagioni principali dello scarso profitto del latino nei ginnasi e nei Licei? E quali i rimedi? “.

   Io sintetizzerò la risposta  formulata e stesa dal Pascoli, facendo alcuni tagli, ma riferendola con le stesse parole, per non alterarne in minima parte il significato.

“Causa  principalissima dello scarso profitto del Latino negli  istituti classici noi crediamo il fatto che le nostre scuole  sono popolate e affollate  di troppi giovani che non hanno attitudine alcuna a tali studi1. Sono questi, che nella scuola screditano i nostri umani studi… e sono forse i medesimi che, fuori dalla scuola, inveiscono contro la lingua morta… filando ragionamenti con la sicura coscienza di cieco  che parla di colori a cieco. Inoltre sì questi, e sì gli altri  meglio naturati  vengono a noi senza una sufficiente e conveniente preparazione elementare… Il fanciullo, al suo primo entrare nel ginnasio, prova una meraviglia, uno stordimento … del quale spesso non si riavrà mai: parole nuove, strane, di colore oscuro… Procedendo, si legge poco, e poco genialmente , soffocando la sentenza dello scrittore sotto la grammatica, la metrica, la linguistica. I più volenterosi si annoiano… e ricorrono ai traduttori non ostinandosi più  contro difficoltà che, spesso a torto, credono più forti della loro pazienza… Le materie di studio si moltiplicano, e l’arte classica  e i grandi scrittori non hanno ancora mostrato al giovane stanco pur un lampo del loro divino sorriso. Anche nei Licei… la grammatica si stende  come un’ombra sui fiori immortali del pensiero antico… Il giovane esce, come può, dal Liceo e getta i libri : Virgilio, Orazio, Livio, Tacito!… E le famiglie  che condussero per mano il fanciullo alla nostra scuola, senza fede nell’umanità  dei nostri studi… per giungere al “titolo” e alla “posizione”… malcontente  giustificano il malcontento del fanciullo e giovinetto che perde il tempo con noi”2.

Il Pascoli sente  il bisogno di riassumere in modo più incisivo:

“Queste le cause: troppi alunni nelle scuole classiche negati agli studi classici; preparazione  a tali studi né conveniente né sufficiente; insegnamento spesso o troppo teorico o  troppo empirico ; poca lettura e poca viva e vitale ; uso e abuso di traduzioni nei lavori assegnati per casa; molteplicità di materie; aridità di esposizione; le famiglie inconsce  della natura e dell’utilità degli studi classici e indifferenti  ai portamenti e ai successi del giovane alunno. Ciò in generale: non mancano davvero i buoni scolari, assecondati da sagge famiglie e guidati da ottimi maestri: potremmo anzi dire  che di scadimento non si parlerebbe… se si paragonasse il numero assoluto dei buoni d’ora e d’allora, lasciando la proporzione  tra i buoni e i cattivi.

   E i rimedi? Sono umili proposte, Eccellenza.

Si desidera maggior rigore negli esami di ammissione  alla prima classe ginnasiale… Nella prima classe  si impieghi il primo bimestre esclusivamente in esercizi pratici di grammatica… né si incominci lo studio del latino se non dopo che il professore  si sia assicurato  dell’italiano. E il latino si studi prendendo per base  e punto di partenza l’italiano… Si provvedano queste prime classi di insegnanti  sempre adatti al difficilissimo officio, abolendo l’odiosa distinzione fra essi e i professori del ginnasio superiore e del liceo, acciocché ognuno resti volentieri nella classe e nell’officio a cui ha maggior attitudine…

Nell’insegnamento il professore si tenga egualmente lontano dal metodo esclusivamente  empirico e dal metodo puramente teorico. Né vieti sistemi, né troppa filologia… Si sprigioni dallo scritto antico tutta la vita che esso conserva. La grammatica dia la chiave dell’interpretazione, ma stia, quando non è necessaria, in disparte. L’insegnamento della grammatica sia tenuto ben diviso e distinto dalla lettura e dalla interpretazione dei classici. Si mandi molto a memoria… E l’esame  di licenza ginnasiale  sia più rigoroso :vi intervenga il professore  di latino del liceo  il quale possa così accertarsi che l’insegnamento grammaticale  fu compiuto…Nel liceo non sia necessario fare altre versioni dall’italiano in latino… e si debba abolire la corrispondente  prova d’esame… In ultimo nel ginnasio superiore la divisione per materie … ci pare che debba farsi in modo che  l’uno dei due professori insegni italiano e storia, l’altro latino e greco. Ci pare necessario che e nel ginnasio e nel liceo si riducano le materie scientifiche…”.

   Prima di passare al secondo quesito aggiungo alcune osservazioni a quelle presenti nel testo e nelle note. Oggi non esiste più l’esame fra quinta ginnasio e prima liceo e nessuno ne sente la mancanza; il Pascoli invece propone di rafforzarlo, di renderlo più severo e di affidargli il compito  di verifica del lavoro svolto durante il ginnasio( che allora comprendeva  i tre anni della scuola media  durante i quali si studiava il latino seriamente). Da quando insegnava il Pascoli tanto tempo è passato, sono intervenute varie riforme, come quella che ha cancellato il latino dalla scuola media: la cosiddetta scuola media unica. Ora, quasi per compensarne la mancanza, succede che  alcuni professori gettano le basi del latino per coloro che ritengono lo affronteranno nel futuro corso di studi. A dire il vero basterebbe fare molta grammatica italiana, particolarmente la sintassi della frase, per fornire  ai ragazzi gli strumenti idonei per affrontare la lingua latina.

Pascoli auspica anche una riduzione  del peso delle materie scientifiche che, stando ai grafici offerti dallo studio del Flocchini[1], non sembra che avessero poi grande spazio, se si eccettua la terza liceo. Oggi la tendenza è orientata in senso contrario, per una diffusa e generalizzata fiducia nelle possibilità della scienza: si tende a potenziare l’area scientifica e ad attivare corsi sperimentali  di matematica  anche nei licei classici, oltre alla presenza sempre più accentuata dell’informatica, sia a livello di corsi pomeridiani e non.

Tuttavia, nel complesso, molte delle riflessioni elaborate dal grande poeta ritengo siano ancora valide.

 

Il secondo quesito posto dal Ministero era il seguente:

“Il metodo scientifico nell’insegnamento della grammatica latina  affretta o ritarda  l’apprendimento della lingua?”

Ed ecco la risposta:

“Sono pubblicate… grammatiche  latine ove i fenomeni fonetici e morfologici sono sistematicamente  insegnati e illustrati col lume degli odierni  studi glottologici… possiamo dichiarare che il metodo che vi regna  con le sue minuzie … e continui richiami alla meditazione e al raziocinio, non affretta davvero l’apprendimento della lingua. Per noi la grammatica più efficacemente didattica è quella che, non dissidendo dalla grammatica condotta secondo i risultati della linguistica… congiunge alla chiarezza e alla semplicità la giusta e proporzionata  partizione della materia. L’insegnante potrà sempre, quando la condizione della classe lo permetta, fornire agli alunni  qualche dato della scienza linguistica… che non confonda, ma chiarisca l’intelletto e aiuti così la memoria”.

Mi sia permessa, anche in questo caso, qualche considerazione sul quesito che ho riportato e sulla risposta della commissione. L’esperienza che mi sono fatta studiando e insegnando il latino mi porta a fare alcune riflessioni che non so se saranno da tutti condivise. Oggi, per i nostri alunni, la difficoltà maggiore è costituita dalla traduzione, non tanto nel ginnasio o nel biennio dello scientifico, quanto nel liceo, io credo perché i ragazzi tendono, soprattutto per il latino, a procedere in modo empirico, ricostruendo spesso in modo erroneo il significato della frase anche se questa è complessa, perché dimenticano la tecnica della traduzione, la lentezza che questa comporta, il rigore che essa impone e procedono “orecchiando”: la parola è brutta ma è la stessa che i ragazzi usano. Il problema nostro, di insegnanti, è quello( nel rispetto delle regole essenziali, senza però scendere a trattare l’eccezione dell’eccezione per non provocare disaffezione per la materia), di  tenerli concentrati sul testo, pronti a mettere in funzione tutti gli strumenti necessari per una buona traduzione: conoscenza delle regole essenziali,  comprensione visiva della struttura della frase,  un buon bagaglio di conoscenze lessicali, a cui oggi si usa correntemente sopperire con l’uso del vocabolario).

 

  Nel terzo quesito Martini chiedeva: “Che pensa la commissione dell’attuale  orario assegnato al latino nel ginnasio e nel liceo? Che cosa dei limiti del programma nelle varie classi?”.   

E la risposta:

“Le ore assegnate al latino non ci pare possano aumentarsi 1…Quanto ai limiti del programma… nelle prime due classi ginnasiali l’insegnamento della morfologia sia accompagnato, … con le nozioni più elementari e pratiche della sintassi… Solo anticipando così lo studio  della sintassi, sarà possibile al professore della quinta farne una ripetizione generale . Per il liceo, desideriamo che  la storia letteraria sia distribuita in  tutti e tre i corsi e con limiti certi, sì che vi sia eguaglianza di insegnamento fra tutti gli istituti pubblici e privati. E in questa trattazione  ci pare  che il professore… non debba  dimenticare di dare qualche semplice  ed elementare nozione  dell’arte classica. Infine non crediamo necessario lo studio dei metri oraziani tutti: bastano i principali”.

 

Il quarto quesito è ancor più circostanziato e davvero interessante. Chiede il Ministro:

“Non crede la commissione che, prima di promuovere un alunno  da una classe all’altra  gioverebbe accertarsi , meglio che non si sia fatto finora, ch’egli possiede veramente  tutta la materia di studio assegnata  alla classe dalla quale esce? Per esempio: l’alunno  fa le sue prove scritte di latino; mette in ciascuna tre o quattro errori, più o meno gravi…si dà all’alunno l’approvazione  con un 6 o un 7;dove l’indulgenza è soverchia , l’approvazione si dà anche a prove meno buone… Così accade che gli alunni arrivano alla licenza liceale, senza avere una conoscenza sicura, non pure delle regole della sintassi, ma dei nomi e dei verbi. Vegga e dica la commissione se non gioverebbe imporre ai professori di fare un programma bene determinato della materia che debbono  insegnare in ciascuna classe, e stabilire che un alunno non potesse avere la idoneità  ed essere promosso, senza aver dato prova  di possedere con sicurezza  tutta la materia insegnata dal professore. L’alunno, per essere promosso, non dovrebbe fare neppure  un errore vero e proprio. Potrebbe solo perdonarglisi qualche svista”.

Così la risposta:

D’ indulgenza soverchia, purtroppo, si pecca, e un po’ dappertutto; e ciò non è delle ultime cause  del poco profitto dello studio, come delle altre materie, così anche del latino. Si adducono spesso, a giustificarla, ragioni speciose… questa ragione di scusa dovrebbe piuttosto valere  per chi si confondesse, per timidezza, agli orali, dove non c’è tempo e modo per raccogliersi e ricomporsi. Ma ci sembra  che pretendere  che in uno scritto non si debba trovare  alcun errore vero e proprio, sia pretendere troppo…tra dimenticanza momentanea e ignoranza e oblio assoluto aiuta a giudicare un cenno, una scossa , una parola ; non la muta carta. E occorre invece… un criterio unico. Cosicchè  sarebbe nei voti di tutti fissare una norma per giudicare gli alunni  in modo eguale nei vari istituti classici. Ma fondarla sul numero degli errori non ci pare pratico  se non forse nelle classi inferiori del ginnasio… Nelle classi superiori del ginnasio e del liceo, si deve tener conto dell’insieme , perché troppi più elementi concorrono all’ elaborazione d’un compito. Utilissimo  invece teniamo imporre  ai professori di fare un programma  bene determinato della materia  che debbono insegnare in ciascuna classe. E non solo farlo, aggiungiamo noi, ma comunicarlo agli alunni, i quali così, conoscendo fin dal principio dell’anno quanto cammino debbano percorrere per giungere all’altra classe, si porranno… in via subito e di maggior lena. Ma anche agli alunni di scuola privata o paterna sia fatto obbligo di consegnare, prima dell’esame,  il programma particolareggiato degli studi fatti. Infine noi raccomandiamo che quella sorveglianza che il Ministero esercita , non senza buoni effetti, sugli esami di licenza liceale, si estenda anche a quelli di licenza ginnasiale e, possibilmente, di promozione e ammissione, sì negli istituti regi e sì, e con maggior ragione, nei pareggiati”.

   Anche questo quesito, con la relativa risposta, affronta temi attualissimi e coinvolgenti per noi insegnanti: innanzitutto il problema spinoso della valutazione. Esiste una valutazione complessiva dell’anno scolastico che si fa in sede di scrutinio finale. Non possiamo nascondere che spesso siamo  indulgenti nei confronti di alunni  che non avrebbero i requisiti per essere  promossi alla classe successiva. Ormai è invalsa l’abitudine di tener presenti molti fattori, non ultimo quello del miglioramento rispetto all’inizio dell’anno, o anche la personalità dell’allievo nel suo complesso. Diciamo pure che le valutazioni scolastiche nella scuola di oggi  sono “abbastanza umane”, ma scarsamente “oggettive”, salvo durante l’anno scolastico, quando noi di proposito svolgiamo valutazioni oggettive su una parte del programma, ma la valutazione complessiva non è mai oggettiva. Nelle prove scritte ognuno di noi, probabilmente, ha messo a punto strumenti di valutazione oggettiva, ma pochi li comunicano anche perché spesso i colleghi non li sottoscrivono per vari motivi che non sto ad analizzare.  Perciò allo stato attuale ognuno va per la propria strada  in barba alla tanto auspicata oggettività e collegialità. Noi oggi non abbiamo  ancora strumenti di valutazione oggettiva  validi per tutte le scuole .

Qualcuno dice  che forse è meglio così , a meno che non si trovino studiosi e insegnanti delle singole materie disposti a lavorare fianco a fianco, con umiltà,  per approdare poi a strumenti validi e non meccanici e riconosciuti funzionali sull’intero territorio nazionale ( fortunata combinazione che ritengo piuttosto improbabile).

   Diversa era la situazione che aveva presente il Ministero ai tempi del Pascoli, infatti egli richiede  se sia possibile  una valutazione  diciamo così “oggettiva e rigorosa”. La commissione risponde che sarebbe auspicabile stabilire dei parametri oggettivi, delle norme di giudizio accettate da tutti gli istituti, ma poi si trincera  dietro una valutazione “d’insieme” del compito che deve essere più rigida  della verifica orale dove l’allievo può essere influenzato dalla timidezza.   

   Ma passiamo all’altro argomento, pure attualissimo e importante sollevato dal Ministro: l’esigenza della programmazione (scopriamo così che la programmazione  non è poi così recente, se esisteva già ai tempi del Pascoli).

La pratica  della programmazione, per classe e materia, è oggi da tempo una realtà consolidata. Il Ministro che ha convocato la commissione coordinata dal Pascoli la auspica, e, guardate un po’, la richiede anche per controllare il lavoro dei candidati delle scuole private. Noi dunque all’inizio dell’anno scolastico facciamo la nostra programmazione e la notifichiamo al consiglio di classe, anche allargato. Tuttavia se il Pascoli fosse in mezzo a noi potrebbe giudicare sull’efficacia di questo strumento che si concretizza in un documento, talvolta stilato senza conoscere bene gli allievi, quando non c’è continuità didattica, con obiettivi spesso ambiziosi, ma ben presto ridimensionati dalla realtà della classe. In realtà ogni insegnante  sa che quasi mai si  riesce a rispettare le previsioni della programmazione, tanto meno a far raggiungere competenze  soddisfacenti a tutti quanti i ragazzi (eppure  ogni programmazione che si rispetti prevede anche questo). Ecco allora spuntare dal cappello di un recente ministro i famigerati “debiti” che servono a poco perché non danno garanzie  per un efficace recupero, visto che sono stati drasticamente tagliati i fondi per la scuola e quindi anche quelli per il recupero; così le cose rimangono più o meno inalterate. Ci sarebbe molto da dire ancora su questo argomento, ma sorvoliamo. Chissà cosa direbbe il Pascoli se fosse qui con noi, a operare nella scuola insieme a noi!

   Interessante il riferimento alle scuole private che devono presentare il programma particolareggiato degli studi fatti. La risposta  della commissione  esorta il Ministro ad una maggior vigilanza  sullo svolgimento degli esami ginnasiali(oggi soppressi) e di licenza liceale “sì negli istituti regi e sì, con maggior ragione, nei pareggiati”. Oggi gli esami  di maturità, dopo le recenti innovazioni introdotte dal ministro Moratti, sono  notevolmente semplificati; anche in presenza di queste prove il Ministro di allora e la commissione, nonché il Pascoli potrebbero giustamente  rimanere alquanto sorpresi.

 

   Passiamo ad esaminare il quesito quinto, nel quale il Ministro osserva:

“Gli esercizi di traduzione scritti dall’italiano  in latino e dal latino in italiano, che si fanno fare nel liceo, forse, anzi senza forse, sono pochi. Gli alunni, oltre i componimenti italiani, oltre l’obbligo a prepararsi a tutte le altre lezioni, hanno esercizi scritti di matematica e di fisica, e talora anche di storia e di geografia; e spesso si scusano al professore di latino di non poter  fare il lavoro scritto per lui, oppressi come sono dalle altre lezioni. Vegga la Commissione se non si possa in qualche modo rimediare a questo sconcio, e se uno dei modi non potrebbe essere lo stabilire fino dal principio dell’anno scolastico, in una adunanza del collegio dei professori, il numero dei lavori scritti che il professore di latino deve dare agli alunni, determinando  i giorni nei quali i lavori debbono essere fatti, e coordinandoli con gli esercizi scritti  delle altre materie… in modo che i giovani non  potessero addurre a scusa  del non averli fatti la mancanza del tempo necessario. Vegga anche la Commissione  se non convenga stabilire che, a parte il componimento italiano, gli esercizi scritti di  traduzione dall’italiano in latino e dal latino in italiano, questi in special modo,  debbano avere nel liceo una grande prevalenza, e se non convenga stabilire  che non si diano esercizi scritti sulle altre materie, salvo il greco e le matematiche, ma con grande parsimonia. Vegga finalmente la commissione se non convenga proibire severamente agli insegnanti di scienze di  fare scrivere e copiare dagli alunni… le lezioni dettate dal professore, con grande perdita di tempo, che va tutta a danno dello studio delle due materie  più importanti, l’italiano e il latino”.

   La Commissione risponde con la consueta chiarezza :

“Abbiamo già  nella risposta al quesito primo assegnata come una delle cause  del poco profitto  nel latino la molteplicità delle materie e indicato come rimedio il restringere  le materie scientifiche. Riteniamo ora utili  ed opportuni  i modi proposti nel quesito che ci è presentato dall’E. V. : stabilire a principio dell’anno il numero dei lavori scritti di latino, coordinarli agli altri lavori, con l’intenzione di far sì che le traduzioni latine  abbiano quella prevalenza  che si ritiene indispensabile…; ridurre al minor numero possibile gli esercizi scritti  di greco e di matematica e prescrivere  che per le altre materie non si abbiano a fare, di regola, lavori scritti… Con questo divieto non si intende però  che non sia lecito di fare scrivere  talvolta qualche riassunto, o classificazione, o quadro sinottico che valga  a meglio ordinare  ed esprimere  nella mente  la materia studiata.

   Abbiamo riflettuto ancora che possa contribuire  non poco al miglior profitto desiderato una prudente distribuzione dell’orario scolastico… che alle materie più importanti fossero assegnate le ore migliori…”.

   La risposta della Commissione farebbe oggi non poco scalpore e susciterebbe  accese dispute fra colleghi di discipline scientifiche e umanistiche; in realtà la commissione pone con molta chiarezza, complice il Ministero, una netta gerarchia  fra le materie ed è il Ministero stesso ad avallarla. Oggi le cose sono notevolmente cambiate dai tempi del Pascoli: già nel 1913 1 venne istituito un Ginnasio-Liceo “moderno” senza il Greco e  con una riduzione del peso del Latino. Questo esempio fu seguito nella riforma Gentile  del ’23 con l’istituzione del Liceo Scientifico che riservava una parte notevole alle discipline scientifiche, pur non trascurando le letterarie, per il momento senza  accesso alle  facoltà umanistiche2 , compresa giurisprudenza. Poi, in tempi più recenti, ci sono stati i vari provvedimenti di liberalizzazione di accesso alle facoltà universitarie e adesso non vige alcuna limitazione.

   Ma passiamo ad altro. Dal mio punto di vista è più interessante discutere ancora sulla programmazione che sta tanto a cuore al Ministro Martini. Direi che ci sia un’eccessiva ambizione di riuscire a  collocare nel tempo, con puntigliosa  esattezza, le varie verifiche scritte, in modo che non ci siano intersezioni, ovviamente per non offrire alibi all’alunno scaltro,  anche a quei tempi. Forse allora le cose  funzionavano. Attualmente vengono fatti tentativi di programmare in anticipo, magari per tutto l’anno, le verifiche scritte delle varie materie, ma poi inevitabilmente, per un motivo o per l’altro (occupazioni, autogestioni, gite, viaggi di istruzione, uscite didattiche, conferenze, ecc) non vengono rispettate. Ora è il coordinatore  del consiglio di classe che si impegna  a evitare  che in una sola giornata di lezione  si concentrino due compiti scritti: è facile immaginare la rincorsa dei colleghi  per individuare sul registro il giorno più adatto; spesso però il coordinatore deve mediare con le esigenze dei ragazzi che magari non hanno compiti scritti, ma verifiche orali egualmente pesanti. Insomma, l’ultimo mese del  quadrimestre si trasforma in un vero calvario per il povero insegnante che deve rincorrere i suoi allievi per procedere alla fatidica verifica. Infine oggi l’insegnante di latino non può più pretendere “le ore migliori”, vista la tendenza a considerare le discipline, soprattutto quelle scientifiche, sullo stesso piano, magari giustamente.

 

   Nel quesito sesto il Ministro approfondisce il problema della lettura  dei testi.

“… Vegga la Commissione  se non convenga  assegnare un minimo di lavoro che in ogni classe alla fine dell’anno deve essere fatto. Tanto del tale autore, tanto del tale altro, ecc; in modo che alla fine del corso liceale gli alunni abbiano letto dei principali scrittori quanto basta ad avere acquistato una specie di familiarità con essi. S’intende che questo maggior lavoro da imporsi agli alunni dovrebbe , fino dal primo dell’anno scolastico, essere coordinato con quello delle altre materie di insegnamento.”   

E la commissione :

“Crediamo che convenga assegnare un minimo di lavoro per ogni classe liceale…E se ciò è opportuno per tutte le scuole, è assolutamente necessario per quelle  che sono frequentate  dagli alunni che  studiano privatamente. I quali, spesso, abusando della larghezza  concessa dai regolamenti ora in vigore, si presentano agli esami di ammissione e delle licenze con tale  scarsa lettura e preparazione da muovere, non si saprebbe, se più a riso o a sdegno.

   E questa libertà, del resto saviamente concessa, se offre ai valorosi e attivi insegnanti più aperto campo a manifestare la loro inclinazione ed attitudine, può d’altra parte aver per effetto, ove non sia temperata con  opportuni freni, che i pigri e i meno valenti, usando di essa a lor senno, possano rendere vano quel frutto che si attende e puossi ottenere dai nostri studi nobilissimi”.

   Anche questo quesito tocca argomenti delicati e di grande attualità : ancora la programmazione finalizzata  a fissare quantità e qualità dei testi più adatti  a conseguire le finalità stabilite. Secondo la commissione  la scelta dei testi  dovrebbe essere piuttosto ricca e uniforme in tutte le scuole classiche, pubbliche e private (ciò ovviamente, diciamo noi, può e deve essere esteso anche a tutte le altre discipline) La commissione insiste particolarmente su questo punto sottolineando la mancanza di preparazione  dei candidati delle scuole private quando si presentano per essere esaminati nelle scuole pubbliche. Adesso, con i nuovi provvedimenti relativi alla parità scolastica, il problema non si porrà.

   L’altro spunto è ancora più interessante e riguarda la libertà di insegnamento, che sarà poi sancita anche dalla nostra Costituzione: secondo la Commissione, ma francamente anche a mio parere, offre grandi e vantaggiose opportunità  per gli insegnanti impegnati che riversano sull’insegnamento tutte le loro energie, ma può costituire pericolosi alibi per chi vuole sottrarsi ai programmi e per “i pigri e i meno valenti”.

 

   Il  Ministro pone il settimo e ultimo quesito:

   “La prova poco felice degli ultimi esami di licenza fa sorgere il dubbio  che gli esercizi scritti di traduzione dal latino in italiano  fatti fare dai professori  di Liceo ai loro alunni siano, oltre che  scarsi, anche poco accurati, che cioè i professori in genere  si contentino di una traduzione  un po’ all’ingrosso, senza insistere quanto sarebbe necessario sulla traduzione migliore, che non può essere che una. Stima la commissione che possa e debba farsi in questo proposito qualche utile raccomandazione agli insegnanti?”.

  E la Commissione:

   “Le considerazioni che l’E.V.  premette al quesito, sono di indole assai delicata…Può essere che in qualche liceo gli esercizi siano  stati pochi e la cura della forma, dal lato del docente, sia stata inferiore al bisogno o non costante, onde il poco profitto finale, Può anche avere  al risultato poco lusinghiero della prova finale di licenza contribuito la brevità del tempo intercorso fra le disposizioni ministeriali, che alla versione  dall’italiano in latino sostituivano quella dal latino in italiano, e gli esami stessi… Ma poiché è notorio che parecchi docenti si preoccupano maggiormente  della interpretazione rigorosamente esatta, anche se in forma men pura, anzi che della perfezione formale  possibile nella nostra lingua  di fronte al classico latino, noi riteniamo necessario raccomandare  che nelle traduzioni dal latino in italiano il professore badi prima alla retta interpretazione del testo, ma poi esiga una pura e spigliata forma italiana, talchè il periodo non latineggi, ma sembri italiano di getto”.

   La  relazione termina  con una conclusione di circostanza, firmata dal Pascoli e dai componenti  la commissione.

L’ultimo quesito non suscita, a mio parere, particolari riflessioni: noi non abbiamo nella prova d’esame  la versione dall’italiano e non ne abbiamo rimpianti, se il nostro compito è quello di avvicinare i nostri studenti alle grandi creazioni letterarie del mondo classico. Più interessante e attuale  risulta invece la riflessione  sul modo di tradurre, che spesso è anche al centro di discussioni con i nostri allievi e colleghi. Io credo che abbia ragione il Pascoli e cercherò di dimostrarlo. In effetti, correggendo i compiti dei nostri studenti verifichiamo che le traduzioni  spesso nascondono una mancata comprensione del testo e si trascinano poi una “orripilante” resa in lingua italiana; molto raramente l’alunno è tanto scaltro da non capire il testo e usare un’ottima forma italiana. Dunque, come osserva il Pascoli, preoccupiamoci che il testo sia compreso e poi  stimoli una corretta , dice il grande poeta: “una pura e spigliata forma italiana”. Ognuno di noi ha, o crede di avere, una tecnica per insegnare a tradurre, dunque è il caso di metterla in pratica.

 

   I rapporti con il Ministero continuarono ancora, come dimostra una “Relazione sull’insegnamento del latino nel R. Liceo Niccolini di Livorno”, presentata a S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione  e datata Livorno 2.5.’94, firmata dal dott. G.Pascoli, insegnante di Lettere latine e greche .

Il testo1 affronta l’importanza della conoscenza della lingua latina  che produce un effetto di “vigore e di serenità”, ma soprattutto delle lettere latine  per la sanità degli ingegni e dei cuori, per la compostezza dello stile, per gli effetti benefici della gravità, carattere generale della letteratura romana. In molti scritti italiani la gravità  delle lettere latine ingenera pesantezza, ma in altri è fonte di buon gusto e di fama; porta l’esempio del virgiliano Manzoni che ne ricava finezza nell’analisi psicologica e verità nella rappresentazione della natura.

Poi Pascoli sottolinea l’importanza “ dell’”ispirazione educativa” che viene dagli scrittori di Roma. Come io la ho sentita in me, così come mi sono studiato di farla sentire altrui… gli studi classici, per me,  hanno il fine di provare  e cernire i buoni  tra i meno buoni, e avviarli alla lor via.  Ai meno buoni gioverà pur sempre aver fatto quel poco di strada, se non per altro, perché possano a suo tempo, o afforzare i loro figli a superare quegli ostacoli o distoglierli di mettersi per quel cammino. Ma anche per altre ragioni gioverà loro, specialmente se si seguano le norme che l’E.V. ci ha voluto indicare.

   Però seguirle quest’anno con la genialità che meritano…non ho potuto né potrò come vorrei. Noi abbiamo due mesi di vacanza…Quei due mesi sono necessari a me per preparare  i miei esercizi…”

 

   “Le traduzioni, che oltre i testi di ordinaria  lettura si assegnano per saggiare il profitto e il volere del discepolo, ho curato che avessero virtù di commuovere  con antichi palpiti i cuori nuovi. Ricordo: Roma in pericolo, I volones di Gracco, La marcia di Claudio Nerone, (Tito Livio: excerpta  dal libro XXVI, 9-11, dal XXIV, 15-16, dal XXVII, 43-50); Le grandi battaglie di Roma (Excerpta dai libri Ab urbe condita, XXI, XXII); La vendetta di Varo (Tacito: Annales: excerpta  da I, 50-52, 55-72. II, 5-26). Sono raccolte fatte a poco a poco, le cui singole parti hanno un titolo che dovrebbe valere a sprigionare dalla narrazione , in una o due parole, il suo senso intimo e poetico…

   Ma cura maggiore  devo spendere  a che non si disperda in fumo la lettura che si fa degli autori. L’E.V. sa che poco o nulla ne resta nelle menti e nei cuori dei nostri alunni, per due ragioni principalmente. La lettura non s’imprime nelle menti, perché queste non ci durano generalmente fatica; perché la fatica è loro risparmiata dai traduttori… La lettura non sveglia  nessun sentimento nei cuori, perché il libro di testo, nelle sue note richiama a ogni passo lo Schultz e il Madvig, non evoca mai la vita antica. Necessario è quindi raccogliere a mano a mano l’importanza di ciò che si è letto, comunque si sia letto. Perciò assegno dei lavori  di collegamento  … ai quali gli alunni si mettono con fervore e serietà. Ricordo di questi : L’idillio nei tempi torbidi, Roma e l’Italia nella Poesia romana, Hostes, Legio Romana. Il primo è una scorsa per le Ecloghe e le Georgiche di Virgilio e per i Sermoni, Epodi e Odi di Orazio. Dai tumulti atroci  che videro e dalle ansie che provarono nella loro giovinezza, venne a questi poeti  quell’amore della semplicità e della mediocrità , quel gusto della campagna che informano la loro poesia…. Quale doveva loro parere l’Augustus il grande pacificatore…!

  Il secondo lavoro è una raccolta di canti altissimi; per es. le lodi d’Italia nelle Georgiche, (G. 2,136) la storia e l’ufficio di Roma nell’Eneide, (Aen. VI,756) e,con altri, il più sublime di tutti: la solenne testimonianza di un Gallo, di  Rutilio (De reditu sui I,63):

                   Fecisti patriam diversis gentibus unam,

                      Profuit iniustis, te dominante, capi:

                  Dumque offers victis proprii consortia iuris,     

                     Urbem fecisti quod prius orbis erat.

  Il terzo è una serie di ritratti e fatti caratteristici dei grandi nemici di Roma, Brennus, Pyrrhus, Hannibal, Jugurtha, Mithridates, Vercingetorix, Arminius e altri: e tra questi Spartacus e Catilina.

   Il quarto è una piccola memoria  sugli ordinamenti militari di Roma. Per questi lavori è necessario ai giovani tornare  agli scrittori che hanno già studiato nel ginnasio, a Cornelio, a Cesare, a Sallustio. Per ottenere che essi li rileggano con attenzione , ho proposto alcuni  temi di traduzione dall’italiano che per la modernità del dettato e per il linguaggio tecnico hanno grande difficoltà, non però insuperabile a chi cerchi negli autori le parole e le frasi  più che nei dizionari. Sono per es.: l“ardita mossa” del Pianell alla battaglia di Custoza, raccontata dalla relazione del Lamarmora, il “quadrato” del principe Umberto…Altri temi di traduzioni dall’italiano sono alcuni aneddoti di virtù civile e militare di italiani, ricavati dalle opere storiche…

   Certo anche con gli esercizi più umili si può suggerire un’alta idea e un nobile affetto; anche nelle materie più fredde e aride si può far circolare la vita. Ecco un esercizio di “prosodia” per il Natale di Roma, fatto fare agli alunni sopra un sonetto non bello, ma poetico:

                                                                  

XI Kal. Maias

 

                   Iam sulci coeunt: sacrum  consistit aratrum,

                   et rictum niveus fumantem taurus ad ulmum

                   tollit, vacca iugo sub eodem candida mugit

                   ac resonant viridis  mugitu saxa Palati.

                   Pastorum medius palpat  sudantis  arator

                   terga bovis  puraque ferox innititur hasta,

                   dum latium prospectat agrum  vitreasque paludes

                   et procul inde  Albae  declivia  moenia Longae.

                   Proxima tam leni circum fluit  Albula cantu

                   ut sonitum pici libros  tundentis acernos

                   adstanti sacri referat  nemus Argileti.

                   Quernea collucet Tarpeio vertice  silva

                   qua  decedentis  flammatur  lumine solis.

                   Descendens aquilae nigrescit  forma per auras.

   

   Il Pascoli si congeda raccomandando al Ministro: “misuri da questo saggio non l’abilità… ma il buon volere ; e mi creda”.

Concludendo  il Pascoli è mosso non tanto da ragioni di controllo delle conoscenze grammaticali dell’allievo, ma piuttosto dalla esigenza di plasmarlo come uomo, di coinvolgerlo, vorrà: “commuovere  con antichi palpiti cuori nuovi”. Difatti la scelta delle letture non è fatta in base  alle conoscenze grammaticali e sintattiche , ma è organizzata per temi, a cui l’allievo deve appassionarsi, da cui deve essere coinvolto. Al poeta interessa che i ragazzi leggano i testi: è lo stesso Pascoli a sottolineare il “senso poetico” della lettura. Leggere significa assaporare la poesia, lasciarsi pervadere dalla forza delle parole: ecco perché egli individua nell’uso dei traduttori uno degli impedimenti maggiori all’apprendimento del latino, insieme  alla presenza di note aride che sembrano uccidere il sentimento, senza “evocare la virtù antica”.

   Eppure in questi momenti in cui  Giovanni sembra più vivo ed entusiasta, più impegnato e nel pieno delle energie, sappiamo dalla “Vita” che invece era davvero molto stanco, dopo tredici anni di insegnamento pubblico e privato: soffriva di disturbi fisici ed era nervoso, meditava, addirittura , visto che non riusciva ad ottenere un posto di presidenza, di chiedere il riposo, ma non aveva diritto ad un’indennità  di buona uscita. Era lo stesso Pascoli che passava il suo giorno di vacanza  con i ragazzi del collegio in cui insegnava  e alla sera, insieme a Maria, li riaccompagnava!

   Nel frattempo, era l’estate del ’94, lavorava alla “Lyra” e nell’agosto scriveva a Severino 1:“ Io non ho altra ambizione  che passare serenamente  una vecchiaia dolce, nec turpem nec cithara  carentem E non so. nemmeno se non preferirei  all’Università (che non mi ammicca) un posto di preside inamovibile in qualche verde  oasi…”. Poco dopo avvenne la morte  inaspettata e prematura del “cuginetto” Placido che Giovanni aveva educato con tanto amore  e per il quale era stato un secondo padre.

Intanto il Ministro Baccelli lo chiamava a Roma ; Pascoli aveva desiderato a lungo quell’invito, ma ora si sentiva poche energie per affrontarlo.

A settembre, finalmente, uscì “ Lyra ” romana non completa, perché l’editore Giusti aveva fretta di pubblicarla  per l’inizio delle lezioni nelle scuole; il Pascoli intanto lavorava a “Epos” e ad altre opere , come “L’anno di Roma”, un libro di lettura  e una grammatica latina.

 

 

In una lettera al Ferrari, datata Livorno 24.11. ‘941 dà notizia della sua “Lyra” e dei motivi del suo viaggio a Roma: “ Caro Severino, dopo molte traversie, lunedì sera parto per Roma, dove mi fermerò meno che posso. Non vado a domandar nulla di ambizioso: umilmente domanderò un permesso di qualche mese per lavorare e mostrare che sono un filologo possibile, anch’io,  meglio del Cortese, forse. Filologo  è chi, oltre la volontà, ha anche un poco di danaro, ossia d’otium. Poeta e scrittore -oh! lì sta  il punto. La “Lyra”  non è finita , perciò non te l’ho mandata… Ora mi basta di aver mostrato che “posso fare” A Livorno senza un libro gratuito, senza uno a cui domandare uno schiarimento, con ore trenta o quaranta  di scuola -quante ne dovevo fare l’anno passato- non è male…”.

   Ma che Giovanni non ne potesse più di insegnare è testimone un’altra lettera datata Roma 29 11 ’942 inviata alle sorelle:“Casini mi ha domandato, se avessi accettato… di essere prof. di greco e di latino a Lucca. Ci ho fatto una risata! Che! Aut Caesar aut nihil. Un poco di pace  e di fortuna , e io potrò guardarli d’alto in basso. Sin da ora la mia  vita di pedagogo  è chiusa. Sta lì , maledetta scuola…

   Finalmente , a decorrere dal 1.12 dello stesso anno Pascoli era destinato a prestare  servizio presso il Ministero della Pubblica  Istruzione con lo stesso stipendio di lire 2970. Purtroppo il comando gli fu amareggiato da un articolo anonimo  dell’“Asino” che lo accusava  di essere stato favorito; Pascoli ne fu addolorato a lungo, nonostante che il Finali e perfino il D’Annunzio  si complimentassero per la sua “Lyra”. Non mancò neppure il successo del suo “Myrmedon”, premiato ad Amsterdam.

Il 15.3. ’95 Giuseppe Chiarini, ispettore generale al Ministero della Pubblica Istruzione gli scriveva  che aveva “ torto a pigliarsela con l’autore… di quell’asinesco articolo dell’“Asino”. Quanti La conoscono sanno ch’Ella, se le Università  non fossero un corpo chiuso riservato a facchini eruditi, sarebbe da un pezzo ad insegnare  nell’Università”. Venne  anche, indiretto, l’apprezzamento del Maestro Carducci per la “Lyra”.

Maria ricorda che in quella primavera  in una lettera  al De Bosis manifestava  anche il proposito di fare  un giornalino tutto in latino, di cose latine”. 3

   Il 15 .10. ’95 esce sulla “Rassegna Scolastica” 4 un lungo articolo  che però non credo risalga a quella data , ma probabilmente  all’anno prima, quando ancora insegnava; penso sia contemporaneo  alla “Relazione  sull’insegnamento del latino” di cui sopra ho reso conto; che siano contemporanei  me lo fanno credere tante riflessioni, non ultima  che in quella relazione  è citato il componimento  sul Natale di Roma in latino, in versi esametri . Tuttavia, poiché l’articolo esce  nel ’95  ne rendo conto  a questo punto del mio lavoro.

Il titolo dell’articolo  è : “Un esercizio di prosodia e metrica”. In realtà si tratta del resoconto di una eccellente e memorabile lezione del Pascoli ai suoi studenti, inviata per conoscenza, ma pensiamo anche per farsi apprezzare, al Ministro della Pubblica Istruzione con cui aveva già collaborato(la lezione meriterebbe di essere riportata per intero, io ho fatto pochi tagli, proprio perché è un peccato sciuparla ).

   Prima della lezione vera e propria il poeta  ammette di non essere preparato in pedagogia, ma osserva: “Può darsi  che alcuno abbia fatto e faccia belle lezioni, senza sapere l’arte della scuola… Io non voglio mica provare  con gli scrittarelli che  pubblicherò in questa “Rivista” che lezioni belle ho fatto e farò. No: voglio mostrare che si può insegnare  qualche cosa, senza aver l’aria d’insegnare; e che questa cosa  può essere creduta noiosa , e non annoiare. Il fine di una  buona pedagogia  dicono non sia altro che questo. Ora altri  veda se senza pedagogia  si può in parte  raggiungere  il suo fine. Perché io scrivo qualche esercizio, qualche frammento di lezione, fatti veramente con alunni e avanti alunni di Liceo, e li scrivo nella forma  presso a poco nella quale  li feci e dissi o avrei voluto farli e dirli. Sono intorno alla lingua e letteratura latina, due di quelle poche cose che so un poco. E poi si agitano molte e grandi questioni intorno ad esse, e spero di qualcuna  mostrare come si possa risolvere. Gli esercizi e i frammenti non penso ora a disporre con un certo ordine. Li disporrò poi , se parrà che meritino”.   

   Si tratta dunque di un documento eccezionale: la dimostrazione, presenti gli alunni e con la loro collaborazione , di come si possa trasformare un sonetto in versi brevi, così chiama il Pascoli gli endecasillabi, in versi lunghi, cioè in esametri, con  versione  latina. Il testo riproduce, passo passo,  il procedimento con cui dal sonetto si passa  al componimento in esametri latini. Pascoli dialoga con i propri allievi, noi non leggiamo i loro interventi, ma comprendiamo che partecipano a questo alto esercizio letterario ma anche intellettuale. E’ anche una bellissima, stupenda operazione della fantasia: entrambi i testi, quello italiano e quello latino, sono frutto dell’invenzione del Pascoli, ulteriore testimonianza del suo eccellente , indiscutibile bilinguismo. Lezione eccellente che dimostra  una conoscenza ineguagliabile del mondo latino e della sua letteratura e nello stesso tempo la capacità di ricreare  poeticamente quel mondo e la sua metrica, mettendo a frutto in modo prodigioso le sue fertili letture (in questa occasione agisce , per esplicita dichiarazione del poeta, il ricordo di Ennio, più volte, senz’altro più ricorrente  di altri autori, ma poi anche di Virgilio, di Cicerone, reminiscenze della memoria, estemporanee, a caldo, senza avere sotto gli occhi i classici, ma facendo funzionare la sua prodigiosa “memoria poetica”).

 Viene da inchinarsi di fronte a tanta grandezza e questa lezione andrebbe sottoposta, come attenta lettura, anche ai nostri allievi del triennio. E pensare che il Pascoli avrebbe già dovuto occupare, a questa data, il ’94-’95, una cattedra universitaria, per la sua eccellente competenza. Evidentemente non seppero o non vollero, neppure il maestro Carducci, valorizzare tempestivamente le sue  eccezionali doti e conoscenze. E’ già il Pascoli poeta eccelso che conosciamo da  “Myricae”, ma più grande  per le sue robuste competenze tecniche (la metrica e la lingua latina); fine nelle sue scelte, un Pascoli allusivo, che ama le analogie, l’immagine nitida, senza artifici, con pochi essenziali tratti che spesso illuminano un paesaggio o un mondo.

    Nella lezione il poeta dà continue sollecitazioni agli allievi1, sottoponendo prima il sonetto sul Natale di Roma in italiano2 e poi stimolandoli a ridurli in lingua latina e in esametri. Ma ecco il sonetto:

                       L’aratro è fermo: il toro,d’arar sazio,

                          leva il fumido muso ad una branca

                         d’olmo; la vacca mugge a lungo, stanca,

                         e n’echeggia il frondifero Palazio.

                      Una mano sull’asta,una sull’anca

                         del toro, l’arator guarda lo spazio:                            

                         sotto lui, verde acquitrinoso il Lazio;

                         là sul monte, una lunga breccia bianca.

                      E’ Alba. Passa l’Albula tranquilla,

                         sì che ognun ode un picchio che percuote

                         nell’Argileto l’acero sonoro.

                     Sopra il Tarpeio un bosco al sole brilla,

                          come un incendio. Scende a larghe ruote

                          l’aquila nera  in un polverio d’oro.  

 

   Spesso sembra che la soluzione della traduzione provenga  dall’impegno simultaneo degli allievi e del maestro che fa appello costantemente alle loro conoscenze metriche: nella realtà l’apporto del maestro si rivela decisivo. La lezione, comunque, offre l’opportunità di assistere  quasi ad un laboratorio  di alta ed eccezionale poesia, anche se la soluzione proviene prevalentemente  dalla memoria del Pascoli che fa riemergere  le citazioni giuste, il verso di un autore che consente  di manipolare, forgiare il verso latino.

In conclusione il testo latino che ne vien fuori finisce per essere più preciso, per esprimere anche quello che il testo italiano non dice. Questa è la conclusione a cui sono giunta. Allora possiamo supporre che le esigenze metriche imposte dalla struttura dell’esametro, siano di stimolo  anche per approfondire  il contenuto del testo e renderlo più chiaro ed efficace.

   Confrontando i due testi, anche ad una analisi non approfondita, viene da fare  ancora qualche considerazione (ricordo che il Pascoli fa corrispondere rigorosamente ad un verso del sonetto un verso del componimento in latino: i due testi sono entrambi di 14 versi, solo che il sonetto è composto ovviamente di endecasillabi , il componimento latino di esametri). A parte la suggestione dell’aratro  che è fermo e richiama  il celebre “aratro dimenticato” delle “Myricae” in “Lavandare”, nel primo verso il testo latino è più ricco perché fornisce  maggiori dettagli all’immagine nel più che emistichio: in quadrum coeunt sulci.

Questa espressione è forgiata in un secondo tempo, dopo che è stato tradotto anche il secondo verso e il terzo fino a taurus. Dice il Pascoli: “Ma noi abbiamo fatto il secondo verso, e il primo è ancora da finire o, meglio, da cominciare. Vedete: i Latini non solevano cominciare nascondendo il soggetto a bella posta, come noi moderni facciamo per stuzzicare la curiosità del lettore… Quindi io  avanti a consistit aratrum vorrei qualcosa che spiegasse perché l’aratro s’era fermato. S’era fermato: perché? Non perché fossero morti i buoi o per altro accidente , ma perché l’opera, il solco era finito. E il solco come era? Quadrato, ossia erano quattro solchi che finivano per unirsi”.

   Ancora osservando appare che nel testo latino il taurus  è anche niveus: c’è un aggettivo che lo caratterizza al secondo verso, mentre il termine taurus è nell’incipit del terzo, in prima posizione, in forte rilievo, come vuole il Pascoli1. Nel frattempo dal sonetto si è persa  la parte finale del primo verso: d’arar sazio, ma è il poeta stesso che  ritiene non necessaria l’allusione alla stanchezza del toro e che preferisce  ad ulmum  piuttosto che  ad una branca/ d’olmo, forse per semplicità, tanto cara al poeta, ma forse anche per ragioni metriche.

   Al terzo esametro compare l’aggiunta iugo  sub eodem che non trova né spunto né corrispettivo nel sonetto, ma che il Pascoli  ritiene invece essenziale . Infatti, rivolgendosi ai suoi allievi, osserva: “Vediamo: il poeta italiano ha tralasciato un’idea, lasciandola indovinare al lettore (è un’idea ricorrente questa del Pascoli che il lettore deve indovinare, che l’arte deve essere allusiva!): il toro e la vacca  sono “sotto il medesimo giogo”, come augurio di fecondità  al popolo e di incremento alla città. Esprimiamola dunque in latino: sotto il medesimo giogo:  sub eodem iugo. Sono parole che possono entrare in un esametro?”. Già si vede come lavora il Pascoli. Ma procediamo con l’analisi:  per  la vacca mugge , come osserva il Pascoli, si prospettano varie soluzioni: vacca o iuvenca o bucula mugit oppure  longos edit, dat, tollit mugitus lassa; vien fuori la scelta più opportuna per la  metrica, ma anche, a me pare, per il gusto poetico.

Il quarto verso nella forma :  e n’echeggia il frondifero Palazio, diventa : mugitu resonant nemorosi saxa Palati  e non il più banale: frondifero Palazio.

   Il verso 5 del sonetto è trasferito in un esametro che non gli rassomiglia; ovviamente si verifica il solito fenomeno che il testo italiano è incompleto, generico rispetto al verso latino dove compare l’espressione : Pastorum medius, riferito ad arator  che non si riscontra nel sonetto e l’anca del toro  diventa sudantia terga bovis; ma anche il particolare dell’asta risulta meglio definito: (arator) puraque  ferox innititur hasta: vistosa l’aggiunta dell’attributo ferox riferito ad arator. Per la traduzione di spazioverde acquitrinoso alla fine del sesto e all’inizio del settimo verso nel sonetto è il Pascoli che spiega tutto: “Lo spazio! Mettete invece il concreto, ciò che Romolo veramente vede, ossia Latium (ancora una volta  si verifica la tendenza del poeta alla concretezza, all’immagine precisa, nitida, non generica). Verde acquitrinoso: due aggettivi aggiogati: non vanno: fate un’endiadi di sostantivi: Latium et paludes”.

Osservo che nella traduzione latina sboccia  il gioiello vitreasque, accordato con paludes, quasi a suggerire una modernissima immagine surreale, immagine bellissima che ricorda il Pascoli delle “Myricae”.

   Ancora interventi significativi nelle due terzine del sonetto: ancora una volta la parola al poeta 1.

Il Pascoli dice tanto che lascia poco spazio per altre riflessioni : io posso aggiungere che, secondo il mio gusto, risulta scialbo il verso del sonetto italiano: Passa l’Albula tranquilla , rispetto al più espressivo, determinato verso latino, dove non avvertiamo più soltanto l’Albula tranquilla , ma sappiamo anche che è vicinissima , si suppone all’arator, e scorre  con un lieve, dolce mormorio. E comunque tutta la terzina del sonetto è di livello poetico inferiore  rispetto al corrispettivo latino: Proxima  tam leni circum fluit  Albula cantu.

Anche gli ultimi tre versi del sonetto trovano una “focalizzazione” eccellente  nei tre versi latini corrispondenti. Intanto lo scialbo Sopra il Tarpeio diventa il più suggestivo Tarpeio vertice; il banale brilla si trasforma in un originale collucet  e un bosco generico diventa più puntigliosamente ed espressivamente querula silva.

Come un incendio le parole si dilatano al v.13  fino ad occupare un intero verso che è un vero gioiello: qua  decedentis  flammatur lumine solis. L’ultima parte del sonetto: in un polverio d’oro trova il suo corrispettivo in  aurum liquidum : forse è questo l’unico caso in cui il testo latino fa rimpiangere quello italiano. Ecco la versione latina:                    

                     In quadrum coeunt sulci, consistit aratrum.

                     Fumantis niveus rictus attollit  ad ulmum

                     Taurus; lassa iugo sub eodem bucula mugit:

                     Mugitu resonant nemorosi saxa Palati.

                     Pastorum  medius palpat sudantis arator

                     Terga bovis, puraque  ferox innititur hasta,

                     Dum latium prospectat agrum vitreasque paludes ”.

                     Et  procul inde Albae  declivia moenia Longae.

                     Proxima  tam leni circum fluit  Albula cantu,

                     Ut sonitum  pici libros  tundentis  acernos

                     Adstanti referat sacri nemus  Argileti.

                     Quernea  collucet Tarpeio vertice silva,

                     Qua  decedentis flammatur lumine solis,     

                     Atque  aquilae liquidum nigrescit forma  per aurum 

   

N.B. Questa ricerca fu presentata come mia relazione al corso di aggiornamento del CIDI  sulla lettura e  l’insegnamento dei classici latini nel tempo, tenuta nell’anno scolastico 2002-2003 : in quella occasione mi occupai del Pascoli professore. Per ristrettezza  di tempo conclusi  la mia ricerca agli anni ’94-’95: manca  ancora tutto il periodo molto interessante della vita e della produzione del poeta-professore  fino alla morte avvenuta nel 1912, in particolare l’analisi di “ Lyra” e “Epos”. Spero di potermene occupare in futuro.


 

1 La voluminosa raccolta di lettere e osservazioni è dovuta alle amorose cure della sorella del Pascoli, Maria,  e al prezioso intervento di Augusto Vicinelli, il quale ha provveduto qua e là alle  necessarie integrazioni. ( ne riporto  fra parentesi gli estremi : M.Pascoli, “Lungo la vita di Giovanni Pascoli”, a cura di A. Vicinelli, Milano , 1961).D’ora in poi sarà citata semplicemente “Vita” con a fianco il numero della pagina .

 

2 Pascoli raggiunse molto presto, all’età di sette anni, il collegio dei Padri Scolopi  ad Urbino e vi rimase  dal 1862 al 1871. Furono anni decisivi per la sua formazione e per la sua arte, anche se qualcuno tende a ridimensionare il valore di questa esperienza. Di fatto il Pascoli dimostra  rimpianto, attaccamento, gratitudine per i suoi maestri.  Lo sottolinea con numerose dimostrazioni  e lettere di Giovanni e di numerosi padri Scolopi Pasquale Vannucci in “Pascoli e gli Scolopi”, Roma, 1950, passim. Anche il Carducci ebbe per maestri i Padri Scolopi ma non ne dimostra grande affezione. Certo, come osserva giustamente il Vannucci  a p. VI  dell’”Introduzione”: “…Erano due anime nativamente  romantiche le loro e con una decisa vocazione  al culto austero dell’arte, ma, appunto perché tali, dovettero entrambe sentir  subito  istintiva l’esigenza di una disciplina , di una remora che potesse venire  da un abito classico da acquisire in sede di studi e di scuola…Carducci a Firenze , presso gli Scolopi, non scoprì  quello che cercava, mentre Pascoli ad Urbino… trovò … quel che voleva  e che gli ci voleva a reggere e a disciplinare la sua anima  irriducibilmente romantica, neutralizzandone gli eventuali sbandamenti.”

 

3 Il Pascoli ricordò costantemente  con tanto affetto padre Cei che lo meritava davvero. Sappiamo dal Vannucci, “Pascoli” 106 sgg, che il Cei ebbe come alunno il Pascoli subito dopo che il ragazzo aveva subito la perdita  del padre, che tanto lo colpì. Egli per lui fu come un altro padre, lo esortava , lo consigliava, lo incoraggiava. Dello scolopio lo studioso  sottolinea alcune doti che saranno anche del Pascoli insegnante, fino alla sua crisi, quando ormai non aveva più le forze per un mestiere difficile come quello dell’insegnante. Vannucci, “Pascoli” 10 ricorda che il Cei sosteneva  un “cumulo enorme di ore settimanali di lezione”, “capace qual era di assumere, per esempio, in uno stesso anno scolastico,  l’insegnamento del Latino e del Greco  in tutto il liceo e di Italiano, Latino e Greco in quarta ginnasiale…” In occasione della morte, nell’ottobre 1871, di Luigi Pascoli, suo allievo e fratello del Pascoli, il padre , cfr. Vannucci, “Pascoli” 110 sgg., curò un opuscolo commemorativo del giovane: “ Vi rievocava , insieme alle virtù del desideratissimo scomparso, la tragica fine del babbo e i conseguenti lutti che avevano funestato la famiglia. Era un’anticipazione di  quella che sarebbe stata  poi la poesia del suo Giovannino, allora appena sedicenne”.  Il testo, in onore di Luigi, si legge per intero in Vannucci, “Pascoli” 111. In prima liceale, poiché il Cei propose  come argomento di discussione  “Tucidide e Machiavelli” il Pascoli scrisse due componimenti, un epigramma greco con versione italiana e latina  sul tema “Niccolò Machiavelli al Capitolo dei frati minori di Carpi” e una canzone sulla solitudine del Machiavelli.

   A tali esercizi di versificazione, così italiana come latina  nella scuola urbinate, il Pascoli attribuì importanza grande  rispetto a sé. Infatti nel 1911, subito dopo aver compiuto e pubblicato “L’Hymnus  in Romam”, con relativa traduzione  in versi italiani, dopo l’affermazione nei concorsi di Amsterdam, dichiarava  in una intervista  a Fulvio Cantoni e pubblicata nel “Corriere della sera” del 26.6. 1911: “Noi insegniamo il latino come se ogni scolaro dovesse poi scrivere in latino, e badi non in latino un po’ misto di elementi… ma nel latino proprio di Cicerone. Per ottenere questo fine, che non raggiungiamo mai, non facciamo altro, si può dire, nelle scuole, se non ammonire: “No! Badi! Non è così!  ”.E’ un argomento negativo. Insegniamo più come non si dice, che come si dice una cosa in latino. Sa perché i nostri Scolopi o Barnabiti d’una volta raccoglievano  tanto maggiore e miglior frutto nelle loro scuole che noi nelle nostre? Proprio con questo esercizio di  versificazione   del quale Lei vede questo mio sopra (“L’Inno a Roma”).Imparavamo allora  la quantità e la retta pronunzia  delle parole… imparavamo allora… una gran copia di parole che con l’altro che sappiamo tutti naturalmente , come quelli che parliamo una lingua  direttamente svoltasi dalla latina, faceva una larghissima provvista, un vocabolario. D’altra parte  il metodo di quegli ottimi insegnanti era con perfetta ragione, perché il verso e la poesia precedono la prosa e il ragionamento”. E’ significativo  che il Pascoli  disponesse di un dizionario di latino  solo dopo aver avuto la nomina di professore di Latino e Greco e che alcune delle osservazioni che vengono fatte nell’intervista  corrispondono  ad una lezione che avrò modo di commentare ampiamente :“Un esercizio di prosodia e metrica”,che io leggo in G.Pascoli, “Antico sempre nuovo”, Scritti vari di argomento latino, con introduzione di M. Pascoli, Bologna, 1925.

 

1 Padre Ricci  insegnava al Pascoli il Latino (l’Italiano, allora, stando ai programmi vigenti, come testimonia  il Vannucci, “Pascoli” 113, pare non fosse materia del corso della terza liceale, anche se c’era la verifica: l’argomento è complesso e andrebbe trattato a parte).Lo stesso Vannucci, “Pascoli” 115 cita un saggio di A. Della Torre, “Giovanni Pascoli studente”, pubblicato in “Rassegna bibliografica  della letteratura  italiana”,anno XX, 31 luglio-31 agosto 1912, dove il Della Torre osserva: “Il Ricci fu umanista perfetto, non un umanista… solo per attaccamento della tradizione, ma anche per sicura coscienza critica  della grande efficacia  educativa ed artistica  del sano umanesimo italiano di fronte  alla pedantesca inutilità del filologismo tedesco, di cui i più giovani professori in Italia cominciavano a menar vanto…”

   Il Vannucci ricorda anche  che le varie onomatopee  di natura zoologica  che ricorrono nelle poesie del Pascoli e che erano criticate, venivano difese dal Pascoli citando appunto un’opera del Ricci: “L’ allegra filologia”, Firenze ,1871, dove il padre scolopio  prende in giro il “rigido esclusivismo ” del Vocabolario della Crusca, citando insigni autori , come il Sacchetti e i Machiavelli, che dell’onomatopea avevano fatto uso.

 

2M.Pascoli, “Vita” nota 1 , in calce a p, 76: la nota è fra parentesi quadra e contraddistingue gli interventi del Vicinelli che leggeva la notizia del Pascoli supplente in T. Barbieri, “Convivium”a.. 1955, fasc. VI . E’ evidente che la notizia non  poteva risalire a Maria che è impegnata a dare del fratello un’immagine costantemente positiva

3 Cfr. “Vita”157.

 

1 “Vita” 167

2 “Vita” 168

3 “Vita” 178

4  Vicinelli nella nota 1 fra parentesi quadra (ciò indica che l’intervento è interamente suo) a p. 205 della “Vita”.

5  “Vita” 196

6 “Vita” 212

1 “Vita”232-33

2Vita”241-42

3Vita”243

1 “Vita” 245 n.1

2Vita”248 sgg.

3Vita”278

4Vita” 296

5 “Vita”310

1 “Pascoli” 141 sg.

2 “Vita”322

3 “Vita”324

4 Fra gli altri anche il Pistelli, cfr. Vannucci, “Pascoli” 142, in una lettera  scritta il 14.6.’92: “Grazie infinite del “Veianius”…E’ la prima volta che leggo versi latini moderni che sembrano scritti da un antico (cioè che non siano un mosaico) e veramente ispirati. Son contento che abbian fatto  la stessa impressione al Vitelli, che in fatto di versi latini è, come Lei sa, terribilmente scettico, eppure  gli sono parsi “magnifici esametri e di getto”.

1 “Vita” 342

2 Cfr. Vannucci, “Pascoli” 143

3 cfr. Vannucci, “Pascoli” 146: si tratta di un intervento del Pistelli  su “La rassegna nazionale” 16.2. 1893.

4 Per la situazione generale dell’insegnamento del latino nel sistema scolastico italiano della seconda metà dell’ 800 si vedano alcune  informazioni in N. Flocchini, “Insegnare latino”, Firenze, 1999, 43 sgg.

5 “ La relazione sull’insegnamento del latino nella scuola media “, I, è riportata  in G Pascoli, “Antico”, 1- 15. Volesse il cielo  che anche oggi i  nostri ministri della pubblica istruzione  avessero la competenza  di porre analoghi quesiti a chi nella scuola vive e lavora  con passione ed entusiasmo tutti i giorni. Purtroppo negli ultimi anni, con vari governi,  la situazione scolastica  si è aggravata e così anche il disagio degli insegnanti, nell’indifferenza  generale dell’opinione pubblica e totale del mondo accademico. Solo il Prof. A. La Penna  pare interessarsi ai problemi che riguardano la secondaria superiore. Di scuola si è occupato anche in tempi più recenti in un’illuminante monografia: “Sulla scuola”, Roma –Bari, 1999.

1 Già al tempo dell’Università, prendendo per buona la testimonianza  di Maria, il Pascoli lamentava  che “ragazzi di pochissima intelligenza, figli di ricchi o di borghesi, fossero avviati agli studi per forza, creando così degli spostati o, peggio ancora, dei privilegiati”. Cfr. “Vita” 64.

 

2 E’ stupefacente come le conclusioni a cui giunge il Pascoli e la Commissione possano essere attuali ancora oggi!

[1] N. Flocchini,“Insegnare latino”, Firenze, 1999, p. 45 : Flocchini fa riferimento ai programmi varati nel 1884 dal Ministro dell’Istruzione Coppino. Del programma di latino si occupò il prof. Gandino, maestro del Pascoli a Bologna, latinista eccellente, il quale  raccomandò soprattutto nel ginnasio una maggior concentrazione, anche oraria, sullo studio dell’italiano, del latino e del greco, eliminando quindi lingue straniere  e scienze naturali e raccomandò di far servire  l’insegnamento del latino non solo all’acquisto della lingua in sé , ma  anche al fine di agevolare l’apprendimento dell’italiano.

1In Flocchini “Insegnare”,45 si legge: “Con i programmi Coppino le ore di latino al ginnasio furono portate a dieci e lo studio del greco fu rimandato alla classe IV ; con Bosello (1888) furono aboliti alcuni tipi di prove: la versificazione e la composizione, su cui tanto aveva lavorato il Pascoli come studente e come insegnante”.

1 Flocchini , “Insegnare…”47 sg.

2 Flocchini, “Insegnare…”48 sgg.

1 Si legge in G.Pascoli, “Antico ” 16-21.

1 “Vita” 381: stupisce che pensi alla vecchiaia all’età di 39 anni!

1 “Vita”389

2Vita”393

3Vita”413

4 Riportato in G. Pascoli, “Antico” 23-41

1 G. Pascoli,“Antico” 25 sgg. Così l’avvio: “Figliuoli: è il 21  aprile, oggi. Come si dice in latino? Ante diem  XI Kalendas  Maias . Voi sapete perché e come; e non sto a ripeterlo…”. Poi il poeta  parla delle nundinae, passando attraverso la citazione  di Virg. Georg. I 273. Per chiudere sulle nundinae  osserva: “Ma basti delle nundinae… a proposito la parola è una riduzione  da novemdinae, ossia non proprio da novem, ma da una forma  neun … lasciamola lì: la glottologia la imparerete all’università (Già questo primo approccio mi pare che smentisca quanti sottovalutano il peso da lui dato anche all’informazione storica che non è mai seconda rispetto ad un preteso desiderio di “proiezione” tout court, in senso esclusivamente romantico) .Il Pascoli  inoltre dimostra di avere competenze anche glottologiche che non esibisce per non appesantire la sua lezione. Del resto egli non ama divagare  su un argomento che non lo interessa e punta decisamente  alla traduzione  poetica. Ama anche instaurare confronti fra passato e presente , tuttavia in questo procede con molta lucidità, senza  confonderli e senza forzature. 

2 A proposito di questo sonetto il Pascoli osserva in “Antico” 29: “Non è un bel sonetto, ripeto, ma quello che ad alcuni potrebbe in esso spiacere , a me confesso che piace: la parsimonia e la semplicità. Il poeta, chi che egli sia, non è un gran poeta ; tuttavia non s’impanca a dir tutto, a dichiarar tutto, a spiegar tutto, come un Cicerone che  parlasse in versi, ma lascia che il lettore pensi e trovi da sé, dopo avergli messo innanzi quanto basta a capire”. Queste poche parole potrebbero servire per sintetizzare la poetica del Pascoli per coloro che vogliono conoscere davvero come  egli lavora e che cosa si aspetta dalla poesia. Continuiamo adesso a riferire le parole del professore ai suoi allievi: “ Io vi dico che a me piacerebbe sentirlo in latino, in versi; vorrei sentire che effetto può fare. Perché è una gran riprova, il latino, delle nostre capestrerie moderne, che hanno spesso  più aggettivi che senso comune , e una sonorità e un barbaglio confusi, che non permettono di intendere le parole e di distinguere le immagini; sì che alle volte lodiamo e ripetiamo ammirati ciò che non abbiamo compreso e non comprendiamo. Mettendo in latino la rumorosa e luccicante poesia , ci avvedremmo  subito che  abbiamo ammirato un ammasso di contraddizioni, di insensataggini, di vacuità: perché la lingua di Roma non vuole essere adoperata a vuoto. Proviamoci con questo sonetto, cari ragazzi; cioè provatevi e avrete un ricordo del dies natalis dell’Urbe… Che cosa dite? Non sapete? No: voi credete di non sapere, ma io vi dimostrerò che sapete… Come è fatto l’esametro, almeno di grosso, tutti sanno. E che ci vuol altro? Solamente il sonetto è un po’ stringato, e se lo volete rendere parola  per parola, vi verrebbero troppi accavallamenti, che stanno bene sì, ma di quando in quando. Poi il sostantivo ne’ poeti latini voi vedete che è quasi sempre accompagnato da un aggettivo, e questo è separato da quello mediante qualche parola sì che l’idea è come disseminata nel verso  e il verso non si capisce a parte a parte, ma nel suo tutto, dopo finito di leggere. Io vi consiglierei a proporvi di rendere ogni verso con un verso… In verità vi dico che questo esercizio che molti valentuomini disprezzano, era ed è utilissimo per imparare il latino. Se non altro, per eseguirlo, bisogna  avere nella memoria  tanti luoghi di poeti. Se non altro insegna, quando si faccia spesso la pronunzia del latino”.

1 G. Pascoli, “Antico”33 : “Ma ritorniamo al nostro tema: di 15 sillabe  possiamo foggiare  comodamente un verso, e tutt’al più, se tra esso abbondano le lunghe, tenere una parola per accavallarla al verso seguente. Vi dico subito quale mi piacerebbe fosse: taurus; perché è la più significativa , e così sospesa e in fine alla proposizione, mi pare che dimostri la sua importanza”.

 

1 G.Pascoli, “Antico”40: “E’ Alba. No, no: qui bisogna dire la cosa  più pianamente, senza pretendere di fare una sorpresa al lettore con: E’ Alba. Diciamo: et procul inde moenia Albae Longae. Albula circum fluit tam lenis, o meglio tam leni cursu o cantu, ut omnes audiant(  scartate la parola che ha breve fra due lunghe), ut nemus Argileti referat  adstantibus o adstanti , intendendo del solo pensoso aratore ; sonitum pici tundentis, la corteccia dell’acero, cioè librum acernum. Collucet Tarpeio vertice silva quernea , qua  flammatur sole decedente  o, con circoscrizione, decedentis lumine solis. Poi : aquila (tre brevi: circoscriviamo), aquilae forma (ricordate in Virgilio : Magnorum formas ululare luporum ?) descendit nigra , o descendens nigrescit per aurum pulverulentum : oh! qui siamo fuori dal latino (forse quest’ultima espressione era stata proposta dalla classe?). Contentiamoci di per auras o tutt’al più per liquidum aurum. Un antico capirebbe però che noi intendiamo dire : nel trasparente  oro del tramonto? Dubito. Or via lavorate. A mano  a mano vi suggerirò qualche parola, che determini meglio il verso italiano un poco indeterminato, e nel tempo stesso soddisfaccia al gusto latino e compisca l’esametro.”