Presentazione del libro di Maria Luisa Vallomy Bettarini, Succiole al fuoco. La parlata del Mugello nell’uso degli anziani e nelle pagine degli scrittori, Firenze, Edizioni Polistampa, 2002. Villa Pecori Giraldi, Borgo san Lorenzo 8 giugno 2002 ore 17

Interventi: assessore alla cultura del comune di Borgo san Lorenzo Patrizia Gherardi; preside del liceo Giotto Ulivi prof. Calogero Bellavia, senatrice Vittoria Franco Scuola Normale Superiore di Pisa, prof Giuliano Tanturli Università degli Studi di Firenze, l’autrice prof. Maria Luisa Vallomy Bettarini.

L’intervento della senatrice Franco mette in evidenza in particolare il fascino del racconto incentrato sulla figura della Marisa: un esempio di microstoria. La relatrice evidenzia inoltre il fatto che nel lavoro emerge una valenza didattica particolare in quanto oltre al tradizionale ruolo di trasmissione di informazioni, la scuola qui si propone come promotrice e produttrice di cultura. Pertanto raggiunge l’obiettivo formativo principale che un insegnamento costruttivo e moderno si deve proporre.

 

Prof Giuliano Tanturli, docente di letteratura del Rinascimento, Università degli Studi di Firenze. Presentazione del libro di Maria Luisa Vallomy Bettarini, Succiole al fuoco. La parlata del Mugello nell’uso degli anziani e nelle pagine degli scrittori, Firenze, Edizioni Polistampa, 2002.

Il libro è fatto di due parti e di due momenti. La prima è il rilevamento condotto nella scuola media "Giovanni della Casa", poi nel liceo "Giotto Ulivi" di Borgo San Lorenzo di forme del parlato di questa parte di Toscana e del contado fiorentino, che è il Mugello, non necessariamente esclusive, ma avvertite come tipiche rispetto alla lingua media nazionale; forse ormai si deve dire del parlato d’ieri: il titolo della ricerca scolastica, cominciata nel 1978-79, la definiva una parlata che scompare. La seconda parte e momento illustra vicinanze e contatti còlti dalla coordinatrice della ricerca, Maria Luisa Vallomy Bettarini, fra questa parlata e la lingua letteraria italiana più antica, ma anche moderna, che la inducono a parlare di nobiltà, a ragione. Maria Luisa Vallomy, professoressa d’Italiano, quindi conoscitrice esperta della nostra letteratura, non è mugellana, né fiorentina, né toscana: d’origine valdostana è nata e cresciuta e ha studiato in Alta Italia, prima di trasferirsi da noi. È, credo, la condizione per cogliere e apprezzare questa nobiltà. Per chi ha incontrato, poniamo, i termini piaggia e poggio in Dante e nel Petrarca (per questo i più normali a designare le diverse conformazioni del terreno, pianeggiante o in leggero pendio e aperto oppure in rilievo), per chi ha incontrato le barbe piuttosto che le radici, per esempio, nel Machiavelli, barbato, non radicato, in Dante, la golpe, non la volpe, nel Machiavelli, l’ellera, non l’edera nel Poliziano, conquidere in Guido Cavalcanti, per lui o lei è logico apprezzare come nobile una parlata nella quale sente (o sentiva) pronunciati spontaneamente piagge, poggi, barbe, barbato, golpe, ellera, conquidere, e invece non sente (o non sentiva) e non di certo come spontanee le varianti dell’italiano medio scritto e parlato di oggi: monte o colle, radici, radicato, volpe, edera. A qualcun altro (o molti altri), invece, che associa poggio, non monte o colle, barbe e barbato, non radice e radicato, golpe, non volpe, ellera, non edera alla lingua della campagna, quelle parole e forme appaiono, nonché nobili, disdicevoli idiotismi, da evitare, per non rischiare di essere aggregato a una classe inferiore e disprezzata. Sto osservando come i punti di vista possano essere relativi e come i giudizi di conseguenza mutino, anzi s’oppongano secondo i punti di vista: osservazione di molto banale.

Eppure questa banalità può insinuare qualche dubbio su un altro luogo comune, che, cioè, la lingua letteraria italiana è nata e cresciuta come una lingua tutta artificiale, senza legami con quella viva e parlata. Il contadino toscano, quando diceva piaggia e poggio, barbe, barbato, golpe, ellera, conquidere, non citava Dante, il Petrarca, il Machiavelli, il Poliziano, il Cavalcanti, che di certo non aveva letto. La sua lingua viva e parlata in parte, e solo in parte, si capisce, coincideva con quella letteraria. E, sempre per la relatività dei punti di vista, se avesse potuto leggere quegli autori, certe parole, quelle da lui usate quotidianamente, non gli avrebbero ingenerato quell’impressione di aulica separatezza che danno a chi non le usa. Non voglio sostenere che sempre e di certo l’ipotetico lettore contadino di Dante e del Petrarca, non dico capirebbe tutto (ciò che non succede a nessuno), ma nemmeno che sempre sarebbe più in sintonia con l’autore di chi lo sente lontano, artificiale e aulico. Anche fra loro sarebbero nati degli equivoci. Ma, certo, il contadino toscano che avesse letto o ascoltato il verso di Dante "Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta", avrebbe sentito tutte le parole che lo compongono giustamente familiari, e in sintonia con l’intenzione di Dante, che usava una parola corrente, erta, che è rimasta corrente nelle campagne fino a qualche decennio fa; meno corrente era salita, che nel frattempo, invece, l’ha soppiantata, sicché il libro di cui si parla registra erta fra le parole che scompaiono. Il Boccaccio spiegava che l’opposto dell’erta era la china, anche questa prevalente fino a qualche decennio addietro, ora soppiantata da discesa anche nelle campagne. Se quello stesso contadino toscano avesse letto nel Petrarca "Date udienza insieme / A le dolenti mie parole extreme", non avrebbe pensato al papa, l’unico che nell’italiano odierno corrente dà udienza; avrebbe sentito l’espressione per quella che era per il Petrarca e per lui: normale modo di esprimere il concetto di dare ascolto, prestare attenzione. Il libro registra opportunamente dare udienza. Ancora, e in questo caso mi limito al Mugello e alla generazione dei nostri nonni, non sarebbe sonato letterario il verso del Petrarca "Già su per l’alpi neva d’ogni intorno" o di Dante "Come di neve in alpe sanza vento", ma come fatti di parole parlate (a parte, sanza, che era del fiorentino antico, ma non forma letteraria e aulica, e, forse, d’ogni intorno). Le alpi, o più volentieri l’alpe al singolare, nome comune, designava per Dante e il Petrarca, come per i Mugellani, almeno quelli nati alla fine dell’Ottocento e in principio del Novecento, le montagne più alte, più alte dei generici poggi, di fatto per noi l’Appennino. Con questa generazione è scomparsa dalla nostra lingua viva (a parte il nome proprio Alpi) una parola antichissima, dell’Italia pre-indoeuropea, in cui doveva significare ‘pietra’, ‘roccia’, quindi le montagne nude, quelle più alte. È emblematico della frattura intervenuta in questi pochi decenni. Neva è registrato nel libro come attestato nella parlata che scompare del Mugello. Credo che effettivamente fosse limitato al Mugello, o forse a qualche altra isola, non generale della campagna fiorentina.

Il Mugello, difatti, rispetto al restante contado fiorentino presenta, o meglio, presentava, mi pare, qualche tratto più conservativo di quanto lo siano di per sé le parlate rustiche. Oltre a nevare trovo documentati dal libro orezzo, non l’aferetico rezzo, più comune, ma la forma intera, più rara anche in letteratura, che è in Dante, nella variante orezza, in Fazio degli Uberti, nell’Ariosto e anche in poeti più recenti, il Foscolo e il D’Annunzio, ma in questi per un estrema ricercatezza e ostentazione letteraria. Trovo ricolta, trovo traere, con l’esempio "trae i·ccottro", che mi richiama, visto il contesto, lì metaforico, l’incipit d’una canzone di Dante: "Tragemi de la mente Amor la stiva", dove la stiva è la stanga dell’aratro o cottro. Sentivo dalla nonna della mia moglie, non dai miei, che erano di Valdisieve, il medievale petonciano, per dire quelle che ora si chiamano solo melanzane. La mia suocera naturalmente lo usava con lei. Ora mi pare di non sentirglielo più, forse perché l’ortolano non capirebbe. Del resto ormai anche i toscani cominciano a dire melone, non popone e, quel che è peggio, credono che si debba dire così, perché lo trovano scritto sui cartellini dei supermercati. Effetti della grande distribuzione, tendenzialmente globale. Le lingue mutano ovunque e di continuo: è nella loro natura, finché hanno vita. Ma rinunciare a parole che si condividevano coi poeti, per uniformarsi ai cartellini dei supermercati, non è certo un arricchimento.

La Marisa, l’informatrice principale del libro, racconta che nei primi anni Cinquanta si preparò al telaio il corredo da sposa: La sua generazione è stata l’ultima a farlo e già l’uso non era più generale: non mi resulta che la mia mamma, contadina di Valdisieve, più o meno sua coetanea, l’abbia fatto. Se la Marisa avesse letto l’Odissea e i Canti di Giacomo Leopardi avrebbe avuto un’idea chiara e familiare della tela di Penelope e della "man veloce" di Silvia "Che percorrea la faticosa tela". La sua figliuola, che, spero, almeno un po’ d’Odissea e di Leopardi ha potuti leggere o anch’io, che più o meno potrei essere suo figliuolo, ce ne possiamo fare solo un’idea vaga e approssimativa, astratta e letteraria. Verrebbe da dire che per certi aspetti la Marisa sia più vicina a Penelope, oltre che a Silvia, che alla sua figliuola. Certamente questo che ho constatato, come la scomparsa, constatata prima, dalla nostra parlata d’una parola antichissima quale alpe, sono emblematici d’una frattura di lingua e di civiltà che proprio noi abbiamo vissuto, paragonabile a poche altre.

Sarà un progresso? Certo che alla classe sociale e alla terra della Marisa, come accennato già, sono state rubate tante parole. E questo suo impoverimento non è un progresso. Le sono state rubate le parole, perché più che in passato le è stato fatto credere che le sue fossero inferiori (e era il contrario) e indotta a ripudiarle e a omologarsi. C’è un passo della Lettera a una professoressa sui sormenti, variante mugellana, anche qui registrata, di sarmenti (un’altra antica, ma usata almeno fino a ieri in altre parti del contado fiorentino è sermenti): "Conosco anche i sormenti. Li ho potati, li ho raccolti, ci ho cotto il pane. Lei su un compito m’ha segnato sormenti come errore. Sostiene che si dice sarmenti perché lo dicevano i latini. Poi di nascosto va a vedere sul vocabolario cosa sono". Sono forme di saccenteria, arbitrio e sopraffazione che ci sono sempre state, ma che, credo, in epoca recente si sono accentuate e non poco hanno contribuito all’impoverimento e sopraffazione che dicevo. Chi oggi avrebbe l’ardire d’usare a voce o per iscritto la parola (qui puntualmente registrata) aratolo, per il latinismo aratro, come dicevano i contadini toscani fino a ieri? Se prendo un vocabolario trovo aratro ampiamente attestato dalle origini fino a oggi, aratolo senz’altro meno, ma in testi e modi significativi. Di questi uno, di Giovanni Cavalcanti, sec. XV, fiorentino, lo usa parlando con disprezzo degli abitanti del contado: "sapranno … come le terre con gli aratoli si pettinano", evidentemente vuole usare una parola loro e forse un’immagine, non priva di poesia. Aratolo pare, dunque, forma tipica dei contadini. Non perciò le note sei e settecentesche al Malmantile riacquistato la discriminano, anzi: "aratolo si dice anche aratro, dal latino". Sottolineo l’anche. La usa nel Cinquecento Francesco Berni in poesia e fra Cinque e Secento Francesco Bonciani, citando il Vangelo: "Non bisogna por mano all’aratolo e poi fermarsi a guardare indietro". Altrettante occorrenze, quattro, sono tutte di trattati d’agricoltura o volgarizzamenti di trattati d’agricoltura dal Trecento, due, al Cinquecento, al Settecento, precisamente al 1759 (Giovanni Targioni Tozzetti, Ragionamenti dell’agricoltura toscana). Fra le occorrenze di aratro, invece, non ne trovo punte tolte dai trattati d’agricoltura. Sembrerebbe, allora, che, discorrendo di cose dei contadini, nonché disdicevole, si trovasse logico e opportuno chiamarle coi loro nomi. Quei trattatisti dal Tre al Settecento resultano tanto più giusti, saggi e onesti di chi con la penna o in altro modo segna sormenti come errori e ruba così un’altra parola ai poveri.

Giuliano Tanturli