INDICE:
Gli Etruschi
I Romani
Il Medioevo
Dal Medioevo ad oggi


 

 

 

La storia delle attività agricole in Mugello è sicuramente un argomento di difficile gestione e di ampi margini di lavoro. Il primo problema con cui mi sono scontrato è il progressivo adattamento delle tecniche agricole, nel corso dei secoli e dei millenni, alle nuovo modo di intendere la coltivazione di cereali, olivi e vigneti, veri ed incontrastati dominatori delle colture del luogo. Questa tutto sommato continua spinta verso il miglioramento, ha di fatto, cancellato ogni forma sviluppatasi in precedenza. Si può comunque asserire che il Mugello non ha mai avuto grandissime espressioni di agricoltura, e se si eccettua il Medioevo ed il primo Rinascimento, neanche politico-economiche. Questo è da ricercarsi sopratutto nella conformazione stessa del terreno e del territorio, che fino all’epoca etrusca sappiamo infestata da paludi e malaria. Infatti il Mugello è una valle alluvionale attraversata da Ovest ad Est dal fiume Sieve, il più grande affluente dell’Arno, e , se si escludono pochissimi territori, proprio in prossimità del fiume, priva di terreno pianeggiante. A ciò è da attribuirsi la scarsa competitività dell’agricoltura mugellana anche in periodi storici più vicini a noi. La mancanza di pianure ha perciò favorito un’agricoltura di sussistenza dove ogni singolo contadino coltivava nel suo appezzamento di terreno ciò che gli occorreva: dal grano,alla vite spesso addirittura nello stesso campo. Ma anche la natura del terreno ha influito non poco sullo sviluppo dell’agricoltura mugellana: essendo di origine alluvionale, la vallata è caratterizzata da un terreno spesso ciottoloso e quindi di difficile lavorazione.

Altro problema non trascurabile è le poche notizie reperibili su le popolazioni che si insediarono in Mugello e quindi la scarsissima quantità di notizie sulla loro attività agricola; ed anche in epoche più recenti le tecniche non sono nè descritte nè pienamente ricostruibili, questo è il caso del Medioevo che, in pratica ha visto la sua fine nel settore agricolo all’incirca nel ‘900 con l’impiego delle prime macchine agricole prima a petrolio, in seguito a gasolio.

In ultimo vorrei aggiungere che la precarietà del lavoro svolto è più da attribuirsi a chi non ha collaborato a questo particolare aspetto del progetto sul multiculturalismo in Mugello che all’incapacità di chi ha scritto, analizzato e rielaborato le fonti raccolte. Non stupitevi dunque se alcuni argomenti trattati saranno,per i lettori più esigenti, un po’ manchevoli e poco articolati, questo è il frutto del lavoro di una sola persona.

 

 

Gli Etruschi

 

 

La storia vera e propria inizia in Mugello, come in tante altre parti d’Italia centrale, con le popolazioni etrusche. Questo non vuol dire che prima non vi abitasse nessuno o che nessuno praticasse una qualche rudimentale attività di agricoltura o comunque raccolta di frutti forniti naturalmente, ma, per quel che ne sappiamo, le popolazioni pre-etrusche mugellane erano per lo più nomadi ( si pensa che il nome Mugello derivi da una popolazione ligure di nome appunto Magelli che forse si insediò nella zona ). A quest’epoca buia, si contrappone un periodo di relativo splendore con gli Etruschi, popolazione misteriosa, ma con radici culturali indubbiamente migliori di quelle delle tribù più o meno autoctone del luogo.

Fin dall’antichità le popolazioni linitrofe celebrarono la fecondità del suolo etrusco tanto che , secondo i cronisti dell’epoca, questa fortunata caratteristica della terra contribuì in modo determinante alla loro decadenza. Questa descrizione, però, valeva (in alcuni casi vale tutt’oggi) solo per la Toscana interna, cioè lontana dalla costa famosa più per le paludi e la malaria che per le sue bellezze paesaggistiche. Agli “... opulenta arva Etruriae” ( i rigogliosi campi dell’Etruria), secondo Livio “fecondi di grano, di bestiame e di ogni altra cosa”, si contrapponeva lo sconsolato quadro dell’Etruria marittima, ma anche di alcune vallate come il Mugello, fatta da Tiberio Gracco e, nel corso dei secoli, anche da Dante nella Divina Commedia. I due autori sono curiosamente d’accordo nel definire quelle terre: “una boscaglia selvaggia e pestilenziale, abitata da serpenti e cinghiali”. Causa di questo abbandono ed inaccessibilità era dovuto al grande problema della malaria. Il paludismo infieriva soprattutto in Maremma ed, occasionalmente, alcune vallate dell’interno come già affermava Catone nel 181. Ma è oscura la causa dell’insalubrità di queste zone, visto che non tutte le paludi italiane sono malariche: ad esempio le paludi vicino Ravenna erano considerate talmente salubri che vi fu instituita una palestra di gladiatori rinomata perfino a Roma. Infatti la zanzara anofele è nociva solamente come veicolo di un virus che secerne essa stessa; perchè propaghi la malaria fra uomini sani, bisogna che prima abbia punto uomini infetti. Quindi vi deve essere stato un periodo storico ben preciso nel quale il microbo è stato introdotto in zone prima non interessate dalla malaria; e poichè il focolaio dell’infezione si trova in regioni asiatiche e sub-tropicali, Erodoto, ipotizzò la provenienza degli Etruschi da quelle zone. Altri pensano a pirati sbarcati a Vetulonia contaminando la popolazione autoctona.

La malaria ed i grandi problemi dovuti ad essa, però, non furono mai un ostacolo ad un’incessante opera di bonifica, anzi, favorirono lo sviluppo di efficientissime tecniche idrauliche volte all’eliminazione dell’acqua in eccesso, al drenaggio ed al livellamento del terreno fino al metodo della colmatura, metodo sopravvissuto a millenni di evoluzione agricola e che si può ritrovare anche in alcuni scritti di Leonardo da Vinci. Tanto affinata era la loro tecnica che anche le oper di bonifica dei sette colli a Roma fu organizzata sotto i due regnanti di origine etrusca: Tarquinio Prisco e Tarquinio il Superbo con la costruzione della ormai famosissima Cloaca Maxima. Questo sistema, già utilizzato nelle più importanti città etrusche, permetteva alle acque di defluire sottoterra allo scopo di eliminare l’umidità in eccesso senza erodere il terreno.

Forti, in questo senso, erano anche i precetti della religione: gli aruspici prescrivevano riti speciali per lo scolo delle acque. L’idraulica etrusca aveva quindi il suo posto nel fondo più antico della religione. Un altro fatto conferma le indubbie capacità degli Etruschi, non solo nel drenaggio del terreno, ma anche nell’individuare polle d’acqua sotterranee, affidandosi alle piante che notavano nel luogo dello scavo e conoscendo tutte le tecniche per forare quelli che noi moderni chiamiamo pozzi artesiani. Quindi lo stato endemico della malaria in Etruria favorì una politica vigilante contro i danni delle paludi, aiutati in questo anche da una religione che insegnava e preservava le tradizioni idrauliche. Ma la lotta contro il paludismo subì un forte arresto dopo il III sec. con la caduta delle città e lo spopolamento delle campagne.

Le pianure, fertili di natura, le steppe, irrigate metodicamente, erano costituite da campi di una certa misura, stabilita dagli aruspici, i cui confini erano segnati da pietre chiamate termini. Bisogna ricordare che gli Etruschi, a differenza di Greci e Romani ( per esempio Virgilio nelle Georgiche), non hanno sofferto della nostalgia dell’Età dell’Oro, nella quale i frutti venivano offerti spontaneamente a tutti gli uomini da Saturno. La loro religione aveva inizio con l’avvento alla guida del pantheon di Tinia (Giove), e con la contemporanea nascita del lavoro e della proprietà privata. Tinia è particolarmente simile ad un Giove Termine molto venerato anche a Roma, cioè quella divinità a cui erano consacrati proprio i confini ( termini in latino, tular in etrusco). I tular erano quindi pietre collocate agli estremi dei possedimenti, e designavano sia il pomerium, sia i confini di un comune con il nome dei magistrati che li avevano tracciati, sia i limite della proprietà privata, sia i confini di un cimitero. Questa stretta interdipendenza fra religione, agricoltura e proprietà necessitava quindi di una figura per metà sacerdote, per metà agronomo. Sappiamo che questa figura si evolverà, nei vicini Romani, nel ben più noto agrimensores ( misuratore della campagna), che pur essendo impiegato statale rimarrà comunque una casta quasi sacerdotale, proprio per la sua derivazione etrusca.

Le colture etrusche erano organizzate, come quelle di tutte le civiltà stanziali di questo periodo, nella classica suddivisione dei campi per svolgere la rotazione biennale:

nella rotazione biennale le colture classiche quali farro, grano, avena erano alternati a periodi di riposo, concimazione o alla coltura di leguminose per permettere al campo di tornare ad essere altamente produttivo.

In Mugello ciò fu reso più difficile a causa della conformazione del territorio e dalla sostanziale insalubrità della vallata, unita alla maggior difendibilità dei villaggi situati sulle colline circostanti rispetto alla piana della Sieve.

 

 

I Romani

 

 

Dopo il sostanziale mistero degli Etruschi, si assiste, in epoca romana, ad uno sfruttamento più capace e produttivo delle terre, non solo mugellane, ma in generale di tutto l’impero che andava formandosi. Proprio l’ingrandimento dei territori sotto il dominio e l’amministrazione romana, videro la necessità di una precisa e rigorosa lottizzazione dei campi da dividere fra contadini, soldati in congedo, ricchi patrizi ed i territori lasciati alle popolazioni conquistate. Lo Stato romano spesso provvedeva al controllo del territorio ed alla sua valorizzazione economica insediando coloni fra i quali la terra veniva ripartita mediante sentieri che si intersecavano ad angolo retto: si formavano così rettangoli detti centuriae. Questo processo di misurazione e ripartizione veniva chiamato centuriazione e spesso era accompagnato da un processo di disboscamento e bonifica, con la costruzione di canali di drenaggio.

I tecnici romani che compivano queste misurazioni e suddivisioni del territorio in latino erano chiamati agrimensores oppure mensores gromatici ( ossia misuratori con la groma: la groma era il loro strumento principale, che consentiva di tracciare angoli retti e perciò di suddividere il territorio in rettangoli regolari).

Le carte elaborate dagli agrimensori venivano incise su lastre di bronzo dette tabulae, che venivano conservate a Roma nel Tabularium, l’equivalente del moderno Catasto. Purtroppo le tabulae sono andate distrutte in seguito alle invasioni barbariche e poco sappiamo dell’organizzazione del territorio e della proprietà ai tempi di Roma, ma basta una foto aerea per riconoscere le aree interessate dalla centurizzazione. Estese centurizzazioni furono compiute nella Pianura Campana, nel Lazio meridionale, in Umbria, nel bacino dell’Arno, ma soprattutto in Pianura Padana. Faceva parte dei compiti dei mensores gromatici anche tracciare il corso delle strade, prima in Italia, poi anche nelle provincie meno popolate dove i coloni romani erano più numerosi.

La popolazione romana ci ha lasciato molte informazioni sul modo di mangiare e quindi sulle colture più sviluppate e sugli allevamenti più pregiati. Sappiamo da cronache del tempo che il pane di frumento entrò assai tardi nelle abitudini alimentari dei Romani: nei primi secoli della Repubblica si mangiava pane d’orzo abbrustolito e macinato. I tipi di pane erano tre: il pane nero ( panis plebeius) di bassa qualità, il pane bianco ma non finissimo ( panis secundarius) ed il pane di lusso (panis candidus).

Le proteine venivano dalla carne e dal pesce. Oltre al maiale ed al bue, erano apprezzate le carni di cervo e di asino selvatico come anche il ghiro ed il pavone. La carne di pollo era poco considerata e le si preferivano la cicogna, la gru ed il fenicottero.

Notevole importanza avevano i legumi, ma anche la lattuga, i porri ed i cavoli, mentre erano assai rari gli asparagi ed i carciofi. Molto apprezzati erano i funghi che però nascondevano insidie ben più pericolose di un mal di pancia: l’imperatore Claudio morì proprio a causa di un piatto a base di funghi.

Le varietà di frutta erano simili alle nostre: la ciliegia fu introdotta alla fine del II sec. a.C. dall’Asia, mentre gli agrumi arrivarono a Roma solo nel IV sec. d.C. Ma la vera differenza fra noi e la mensa romana è da ricercare nei condimenti: i Romani prediligevano salse di pesce fortissime come il garum, un composto ottenuto dalla fermentazione al sole di interiora di pesce.

L’agricoltura romana in Mugello fu più una prosecuzione delle antiche tecniche etrusche che la nascita di un’agricoltura meglio organizzata proprio a causa della centurizzazione, che se da un lato favoriva lo Stato nella riscossione dei tributi, non permetteva l’arrivo delle ultime tecniche in Mugello a causa della prevalenza di ufficiali in congedo nel nostro territorio che non avevano nessuna esperienza in campo agricolo.

 

 

Il   Medioevo

 

 

Anche le notizie sull’agricoltura mugellana sono frammentarie e poco approfondite, ma sappiamo per certo che la Repubblica fiorentina  nelle sue opere di consolidazione politica in Mugello contro i vari signorotti del posto (i conti Guidi furono i più attivi) e le incursioni di mercenari da Nord, organizzò la costruzione di sei fortezze: Scarperia, San Piero a Sieve, Borgo San Lorenzo, Vicchio, Barberino di Mugello e, già nel territorio della Val di Sieve, Dicomano. Ogni fortezza formava un Lega con le popolazioni contadine linitrofe che diventavano così il contado, assicurandosi così un approvvigionamento costante dei viveri una volta a settimana (il mercato settimanale che tuttora viene praticato) e consentendo agli abitanti della lega protezione e maggiori scambi commerciali, sia con l’interno che con l’esterno.

In ogni Lega la Repubblica, tramite il podestà, emise uno statuto che oggi ci permette di conoscere le merci vendute nel giorno del mercato: merci comuni a tutta la Toscana rurale come polli, starne, capponi, uova, formaggio. Il podestà aveva l’obbligo di evitare che altri mercanti vendessero fuori dalle mura, per evitare la concorrenza con quelli all’interno. Il fatto stesso che esista un mercato settimanale è significativo della necessità dei popoli della Lega di far capo al castello, ma la concessione del mercato da parte della Repubblica, in genere, non faceva che ratificare una situazione già sviluppatasi spontaneamente. La merce che veniva venduta a peso, doveva venir pesata con le bilance messe a disposizione dalla Lega, per evitare logicamente i contrasti fra acquirente e compretore.

Entro otto giorni dalla nomina del nuovo podestà, i mugnai dovevano presentarsi presso di lui, giurare e dare assicurazioni di adempiere il loro lavoro in modo corretto. Vi erano poi norme che regolavano il commercio delle carni, come ad esempio l’obbligo di pesare le carni con stadere punzonate con il sigillo del comune di appartenenza, la vendita in banchi separati delle carni di manzo da quelle di agnello e di capra e la regolamentazione dello stesso prezzo, stabilito in base a quello di Firenze. Anche i venditori di vino al minuto, come gli osti e gli albergatori che per esercitare dovevano essere garantiti finanziariamente almeno da altre due persone, avevano un rigido regolamento che prevedeva anche il pagamento di una gabella al Comune di Firenze.

Nei vari statuti comunali non mancavano norme e divieti per la salvaguardia dei terreni e la cura dei campi. Ogni anno nel mese di Maggio il rettore di ciascun popolo delle varie leghe doveva convocare i contadini del suo territorio per eleggere una guardia camparia incaricata di vigilare sui beni e le cose del luogo assegnatole. La figura del campario doveva essere di notevole prestigio visto che bastava una sua denuncia per incriminare una persona che abbia recato danni a cose altrui. La guardia non aveva una paga fissa, ma veniva stipendiato dal rettore del popolo in cui era stato eletto in base al suo operato. Una forma di incentivizzazione del lavoro della guardia camparia erano i soldi che il comune gli destinava ogni qualvolta facesse infliggere un’ammenda. Ma il suo lavoro non si limitava a vigilare sui contadini, ma anche a stimare l’eventuale danno arrecato e, per le dispute di piccola entità, era giudice unico. Oltre alla guardia camparia, vi erano altri modi per la Lega di punire chi violasse proprietà private: ammende sono previste per chi si introduce in frutteti (pena raddoppiata se l’intrusione avveniva di notte), per chi raccoglie la biada dai campi altrui ed anche al proprietario degli animali che recavano danno alle coltivazioni, sopratuttuo nei mesi di Maggio, Giugno e Luglio. Per quest’ultima erano previste pene diverse a seconda degli animali che invadevano le colture: poco considerate erano gli sconfinamenti di capre, buoi, cavalli e somari; la pena cresce per agnelli e pecore, ed è altissima per i maiali. Le ammende variavano anche a seconda del prodotto coltivato: ad esempio erano poco onerose le multe per i danni arrecati a campi di frumento, molto più sostenute quelle per danni a vitigni ed a frutteti. Dai vari statuti emerge anche la volontà di garantire i possessori di animali utili alla coltivazione ed al trasporto: chi uccide uno dei suddetti animali incappa in un’onerosissima multa ed anche all’obbligo di ripagare il valore della bestia uccisa. I proprietari di questi animali potevano anche prestarli ai contadini per il lavoro nei campi od ad altri per effettuare dei trasporti, ma avevano l’obbligo di mantenere la parola data, pena una grossa ammenda.

Fra le disposizioni relative alla terra ed alla salvaguadia delle colture, spicca l’obbligo per ogni proprietario o affittuario di terreno a coltivare nelle stagioni adatte un orto con tutti gli ortaggi comunemente seminati nella zona e tale obbligo si spiega con la necessità di mantenere curata la terra. Bisogna comunque dire che tali regole avevano molto valore all’interno delle varie fortezze e nel contado linitrofo, ma trovavano grandi ostacoli di attuazione nelle impervie colline delle varie popolazioni che componevano le leghe.

La maggior produttività delle terre in questo periodo è da ricercarsi sopratutto nella grande rivoluzione agricola che colpì anche una vallata refrattaria alle innovazioni come il Mugello. Innanzitutto con il perfezionamento dell’aratro che venne dotato di ruote e di una lama ricurva che compie il ribaltamento delle zolle, con l’invenzione del ferro da cavallo che divenne anche un animale da fatica grazie al collare da spalla leggermente diverso dal classico giogo da bue. Ma la tecnica agricola che permise questo timido miglioramento nella resa delle colture fu dovuta alla rotazione triennale che prevedeva che i campi fossero destinati un anno a frumento, uno a maggese o a pascolo, ed uno alla coltivazione di legumi:

 

 

 

Dal Medioevo ad oggi

 

 

La mezzadria in Toscana, e forse ancor di più in Mugello, non era solo un contratto agrario, ma un insieme di regole e di valori che affondava le sue radici in tradizioni medioevali, tanto da sembrare immutabilmente strutturata ancor ai primi dell’Ottocento, quando si accese una vivace discussione all’interno della classe dirigente toscana. Alcuni ritenevano che ogni minimo cambiamento avrebbe attentato alla pace sociale perchè si sarebbe minato le basi di una struttura secolare che, tutto sommato, soddisfaceva entrambi i contraenti. Si sosteneva che la mezzadria garantisse condizioni di vita decorose al colono e redditi sicuri ai proprietari senza nessun contrasto tra le due parti.

Altri cominciarono a chiedersi se fosse ancora attuale e conveniente adottare il sistema mezzadrile e quali fossero, eventualmente, le modifiche da apportare per renderlo più vicino alle mutate esigenze della società. Divenne presto chiaro che il sistema mezzadrile non era più economicamente vantaggioso e neanche renumerativo. L’industrializzazione,che cominciava a farsi largo anche in Italia, consigliava gli imprenditori più lungimiranti di investire sulle macchine agricole e sui concimi, abbandonando un sistema desueto incapace di reggere il confronto con l’estero, ma anche con il Nord-Italia.

Nel territorio mugellano il sistema mezzadrile era impiantato da secoli ed era adottato nella quasi totalità dei poderi, fossero essi in pianura o in collina. Neanche qui mancarono tentativi di applicare nuove tecniche agricole, ma al di là di sporadiche riforme, il sistema mezzadrile non subì nessuna modifica, anche dopo le rivolte a seguito della crisi del primo dopoguerra. L’unico intervento intrapreso fu quello di vincere i vari particolarismi finalizzati all’autoconsumo della famiglia contadina attraverso l’accentramento decisionale nella fattoria del proprietario. Ma in un mondo statico e riluttante ai repentini mutamenti i ritmi di ammodernamento furono molto lenti, e ebbero il primo vero risultato con la nascita dell’Associazione Agricolo Mugellana (1897), che aveva lo scopo di sensibilizzare i propritari sui progressi delle tecniche agricole, di fare acquisti consorziati di concimi e macchine agricole e quindi di orientare i prodotti mugellani verso il mercato.

La durata del contratto colonico seguiva l’annata agraria, dal Marzo al Febbraio successivo e, se non veniva disdetto, veniva rinnovato per un altro anno. Ma il proprietario poteva comunque disdire il contratto in ogni momento per infedeltà, insobordinazione, cattiva condotta o per una grave malattia del colono. In caso di disdetta il colono era obbligato a concimare e conservare tutto il podere fino al passaggio al nuovo colono.

Gli stumenti ed il bestiame erano per legge procurati dal colono, ma spesso gli unici attrezzi che poteva permettersi erano quelli più modesti (pale, vanghe, zappe); quindi oltre alla casa ed al podere, il padrone procurava al colono anche bestiame, carri e macchinari. Il lavoro nel podere era totalmente fornito dalla famiglia, ma nei periodi di mietitura e trebbiatura, il personale occorrente era stipendiato a metà con il padrone.

Persistevano ancora le servitù feudali, gratuite e imposte per contratto al colono, che a determinate scadenze doveva donare al proprietario regali o lavori senza retribuzione, come il patto di fossa (obbligo di effettuare lo scasso di fosse per le viti), l’obbligo di donare uova e capponi a Natale e Pasqua, legna da ardere, trasporti gratuiti e un certo numero di bucati. Come se non bastasse, ogni qualvolta fosse stato macellato un maiale, un cosciotto spettava di diritto al padrone.

Al colono era permesso di coltivare un piccolo orto per conto proprio e di allevare animali da cortile. Nella divisione delle spese e dei prodotti, tutto era diviso a metà fra le parti, fatta eccezione per le imposte erariali che avrebbero dovuto gravare sui proprietari, ma che spesso erano a carico della famiglia o, nei migliori casi divisa a metà. Tutta la gestione del podere era rappresentata dal “ libretto colonico” che testimoniava a livello giuridico la situazione di credito o di debito del colono nei confronti del proprietario del fondo. Ogni anno si faceva la stima del bestiame e delle scorte, e sulla base dei risultati si constatava, attraverso il saldo finale, se il colono risultasse debitore o creditore. Quando il colono era in debito, era sottoposto al ritiro di tutti i prodotti di parte colonica e, nei casi più gravi, licenziato. Se il colono risultava in credito, la somma non veniva corrisposta immediatamente e spesso veniva depositata su di un libretto bancario vincolato, ma questo solo dopo le lotte del primo dopoguerra.

Nella seconda metà del Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento l’assetto della proprietà fondiaria aveva subito in tutta la Toscana un forte stravolgimento, prima in seguito alle vendite delle terre granducali, poi con i provvedimenti napoleonici sui beni ecclesiastici; ma il frazionamento fondiario non si era risolto in un aumento della proprietà coltivatrice o, dove questo era accaduto (soprattutto zone di montagna) in luoghi nient’affatto adatti ad un’agricoltura che non fosse di sussistenza.

Con il sistema dell’ “appoderamento” il regime mezzadrile ha fortemente caratterizzato il paesaggio mugellano, con i caratteristici appezzamenti delimitati da “ciglioni” (muri a secco), da canali di scolo e da prode vitate. La sistemazione del terreno “a prode”, cioè in porzioni rettangolari, aveva l’inconveniente di accumulare la terra scavata sui bordi, e quindi ne risultava un argine che faceva rimpozzare l’acqua al centro dell’appezzamento (campi a scodella) e che richideva una manutenzione continua. Lungo i margini delle prode venivano piantati filari di viti, olivi, salici, gelsi o alberi da frutto. Questa promiscuità di coltivazioni dava luogo alla classica “alberata toscana”, cioè l’alternanza di filari di piante con i cereali. Nei poderi di pianura i filari erano piuttosto distanziati e spesso si trovavano solo sui confini delle prode, in collina, invece, si avevano filari di viti ed olivi anche nel mezzo al campo. Questo per il criterio di autosufficienza alimentare, non si produceva per vendere al mercato, ma per ricavare dal singolo podere tutto il necessario per l’alimentazione e gli altri bisogni della famiglia. Il podere, quindi, si presentava da terreni seminativi nudi (senza filari arborati), con presenza di viti o con presenza di olivi. Dal catasto leopoldino risultava che tutto il seminativo era meno di 1/3 di tutta la superficie agraria disponibile. I dati del catasto del 1929 sono molto migliori, ma bisogna considerare la considerevole distanza fra i due documenti e il perorare di una politica agricola di autosufficienza, definita già a metà dell’Ottocento superata.

La coltivazione principale del Mugello era rappresentata dal grano gentile (della qualità migliore e destinato alla vendita), da quello grasso (duro, adatto alla fabbricazione della pasta) e da quello “vecciato” (grano mescolato con segale utilizzato dai più poveri). All’inizio dell’Ottocento fu introdotto in Mugello il mais che grazie al suo basso costo ed alla sua buona adattabilità ai climi più diversi, si diffuse in modo considerevole e divenne l’alimento base per numerosi mugellani, provocando malattie endemiche come la pellagra. La coltivazione di mais si spingeva fino ai terreni montagnosi dove era accompagnata dalla coltivazione di fave, fagioli e patate. Proprio le patate meritano un discorso a parte. Se nei paesi nordici e soprattutto in Irlanda la patata aveva per secoli rappresentato l’alternativa alla fame, in Mugello la sua coltivazione, produzione e consumo rimasero bassissimi fino a ben oltre il 1900. Addirittura i contadini le utilizzavano come cibo per gli animali e furono duramente colpite nel 1876 da una malattia detta “melatica” che guastò l’intero raccolto. La vite era totalmente assente come coltura specializzata, ma molto utilizzata nel seminativo arborato, facendola crescere con l’acero (a Vicchio quest’unione è chiamata “chioppo”), in proporzione di 4 viti per ogni acero. La qualità dei vini mugellani, a differenza di quelli della Bassa Sieve, non è mai stata eccellente soprattutto a causa del perdurare delle nebbie per molti mesi dell’anno che non consentono una completa maturazione del grappolo. L’uva veniva fatta fermentare per due settimane in tini di legno e successivamente messa nelle botti assieme al “governo” (uva lasciata appassire e poi spremuta). Nei primi anni del 1900 la fillossera, nota malattia che colpisce la vite, costrinse i contadini a sostituire le piante con altre americane più resistenti alla malattia. L’olivo non ha mai avuto vita facile, a causa dell’esposizione della valle ai venti del nord e soprattutto alla Tramontana. In contrasto con l’olivo gli alberi da frutto, soprattutto peri, meli, ciliegi, susini e noci che integravano i redditi delle famiglie coloniche anche se non erano presenti sul territorio frutteti specializzati e poche erano le cure che i contadini davano loro se si escludono gli innesti. Molto importante in Mugello fu fino al secolo scorso la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco da seta. Il seme spesso veniva tenuto nella stalla, sotto i letti o nel seno delle donne e non nelle moderne incubatrici che in quel periodo fecero crollare il prezzo di questo articolo. Senza attrezzature e disinfestazioni le rese erano molto basse anche se sopravvisse la produzione nelle famiglie più povere anche dopo la Grande Guerra. Ma il vero colpo di grazia fu dato dalla diapsis pentagona che decimò i gelsi in tutto il territorio. Ricordiamo che tutte le spese per l’allevamento dei bachi era a carico dei coloni, ma i proventi della vendita erano divisi in parti uguali con il proprietario.

Per il bestiame e i prodotti di poco valore, le vendite erano effettuate al mercato settimanale o nell’annuale fiera del bestiame a cui partecipavano tutti i coloni del comune. Le contrattazioni avvenivano sempre con la mediazione del sensale che percepiva una quota uguale dal compratore e da venditore. Prima della Grande Guerra i prezzi dei prodotti agricoli mugellani non subirono grandi oscillazioni e rimasero sempre legati all’abbondanza del raccolto. Nel periodo successivo alla guerra, invece, i prezzi subirono costanti e continui rincari con enormi profitti per commercianti e mediatori.

La caratteristica principale dell’agricoltura mugellana erano tali da impedire l’introduzione sistematica delle macchine, e, fino all’inizio dello scorso secolo, le tecniche di lavorazione erano basate sul lavoro manuale del contadino. Basti pensare alla tipica vangatura mugellana (detta a palmento, cioè con scoperchiatura a due puntate) raggiungeva la profondità di circa mezzo metro, paragonabile a quella dei migliori aratri inglesi. A differenza dell’aratro, la vanga, per i contadini mugellani, aveva la punta d’oro cioè consentiva un lavoro preciso, impossibile con la lavorazione meccanica. Ogni 10-30 anni si provvedeva ad un’operazione conosciuta come “zapponatura mugellana” che consisteva in uno scasso di circa 70 centimetri di profondità, durante il quale la terra lavorata veniva mescolata con quella sottostante. Erano operazioni faticose e effettuate al termine delle rotazioni e prima della coltura di rinnovo, necessarie a rendere fertili i campi. L’aratura era effettuata con l’aiuto dei buoi e l’aratro di legno, a doppio orecchio e con vomere con vangheggia di metallo, era privo di versoio e serviva a smuovere la terra solo in superficie dopo averlo ben vangato. Con un aratro più piccolo si preparava il terreno alla semina ed era per questo chiamato “sementino”. Dopo l’aratura si provvedeva ad una semplice erpicatura che serviva solo a pareggiare il terreno visto che l’erpice non aveva neppure i denti di ferro. La semina avveniva “a spaglio”, oppure direttamente sui solchi. I semi erano acquistati dal proprietario che però riceveva da colono la metà della somma al raccolto. Il taglio (“segatura”) dei cereali avveniva, prima dell’avvento delle macchine a raso terra e senza lasciar stoppie nel campo e finchè non furono introdotte le trebbiatrici azionate dai primi trattori a petrolio, il grano si batteva con il classico “correggiato” costituito da due bastoni raccordati fra loro. La fertilizzazione dei campi era eseguita fino al 1900 esclusivamente con letame e con semi di lupino che venivano cotti e sparsi nei campi. Il “sovesio” di lupini freschi veniva eseguito per il “ringrano”, ossia per la semina del grano schietto. Ad Agosto i lupini erano seminati con il grano ed a Novembre le piante erano sotterrate con l’aratro sementino, mentre il letame era destinato alle colture che precedevano il rinnovo. Il letame di stalla era costituito dalle feci di mucche, maiali e pecore, mescolate con la paglia ed innaffiato con le orine.

Fino all’Ottocento la forma tradizionale di rotazione agraria in Mugello fu quella di derivazione romana, cioè il maggese produttivo: il terreno era coltivato per un anno, l’anno successivo era lasciato a riposo o alla coltivazione di piante da riposo quali lupini, granturco, ecc... . Ma alla fine del ‘700, la necessità del colono di produrre diverse qualità e maggiore qualità di cereali lo spinse ad attuare rotazioni più complesse ed intensive con rotazioni triennali, quadriennali ed addirittura quinquennali.

Solo nei primi anni del ‘900 in Mugello cominciarono a comparire le prime macchine agricole che sconvolsero l’intero assetto lavorativo ma anche sociale che per secoli aveva visto come unica fonte di sopravvivenza il lavoro manuale. Così si modificò profondamente anche il paesaggio mugellano ed il fitto reticolo dell’alberata fu presto diradato per permettere il passaggio delle macchine. Ma si trattava di ben poca cosa rispetto al resto d’Italia e soprattutto del mondo, ed in pochi anni molti coloni, contadini, ma anche braccianti e quant’altri fossero legati all’agricoltura mugellana, cominciarono a spostarsi in città richiamati dalle migliori opportunità di lavoro che le nascenti fabbriche offrivano loro. Da quel momento è iniziato lo spopolamento delle campagne mugellane e la diversa politica economica effettuata, che ha fortemente scoraggiato un’agricoltura già povera di suo, indirizzando verso altri campi lavorativi il Mugello ed i mugellani.