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Il dialetto (vc. Dotta, lat. dialécto, dal gr. dialektos “discussione” e poi “particolarità linguistica”, da dialégein “parlare (legein) attraverso (dià)” “discutere”) è un sistema linguistico particolare usato in zone geograficamente limitate. Il dialetto si distingue dal vernacolo (vc dotta, lat. Vernaculu(m) “relativo agli schiavi nati in casa”, poi “paesano, domestico”.Da Verna “schiavo nato in casa”), che è affidato quasi esclusivamente alla tradizione orale e che ha assunto, nell’uso plebeo, connotazioni di maggiore vivacità e spontaneità rispetto alla lingua letteraria e al dialetto stesso.
L'Italia è un Paese che ha il maggior numero
di dialetti in rapporto con la sua superficie. Questa molteplicità è una
conseguenza della grande varietà della sua storia, dei suoi costumi. Insomma, i
dialetti sono un po’ come è l'arte in Italia, così diversa, così stratificata.
I dialetti non sono
dei sottoprodotti della lingua italiana. Hanno le loro radici che sono
altrettanto nobili. Per un linguista parlare di lingua o di dialetti è la
stessa cosa. Fra lingua e dialetto non esistono sostanziali differenze: una
lingua non è altro che un dialetto che ha la prevalenza sugli altri,
riconosciuto come mezzo di comunicazione da comunità che hanno dialetti
diversi.
Sia la lingua italiana sia i dialetti parlati in Italia sono
pari grado perché derivano dalla stessa matrice latina. Che poi i vari dialetti
abbiano avuto vicende storiche diverse, che alcuni, pur rispettabilissimi,
non abbiano prodotto documenti letterari limitandosi ad essere mezzo di comunicazione
fra gli abitanti di una certa zona non si può negare. Alcuni dialetti sono
andati più in alto di altri. Come è stato, per esempio, il caso del siciliano,
che nel Duecento ha prodotto una grande scuola poetica, la prima in Italia.
Quella toscana, del Dolce Stil Novo, è venuta dopo.La fortuna del toscano
si basa sul consenso avuto da scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio. E
ad un certo momento, appunto per ragioni culturali, letterarie, è accaduto
che autori del Nord come del Sud abbiano cominciato a scrivere in toscano,
come Boiardo che era emiliano o come Sannazzaro che era napoletano... è stato
un fatto di libera scelta...
LA STORIA
Come il quadro della preistoria toscana mostra sì una succedersi di correnti e di legami con altre regioni d’Italia, ma mai un brusco svolgimento della storia culturale della regione; come la sua etnia, dalla fase tirrenica alla etrusca, è praticamente incontaminata fino all’età storica, così quest’omogeneità e linearità si ripete per quanto riguarda lo svolgimento della latinità di Toscana. Il latino di Toscana è quello che meno ha risentito di processi di mescolanza linguistica. Se si tiene conto di un fattore materiale come la conservazione delle epigrafi antiche, ecco che, nell’Etruria centrale e meridionale, la proporzione delle epigrafi etrusche arrivate a noi schiaccia il numero di quelle latine. Solo nella Toscana settentrionale il numero delle testimonianze epigrafiche è minore, e quelle latine mostrano una leggera prevalenza. Le due tradizioni linguistiche solo nell’Etruria settentrionale si erano avviate verso una reciproca fusione.
La prima affermazione romana in direzione dell’Etruria si è avuta nel IV secolo a.C. con la precoce fondazione delle colonie di Sutri (383 a.C.) e Nepi, oggi nel Lazio. Ma col III secolo la espansione romana segue tutt’altra direzione , quella della odierna via Flaminia. L’Etruria accoglie qualche rara colonia, Cosa (273) e Heba (dopo il 168), al confine ligure Luni (177) e Lucca. La maggior parte delle città rimase nella condizione di alleate , e le autonomie politica linguistica e culturale si associano insieme per dare anche in quest’età alla Toscana quella figura di area appartata, che aveva già conosciuto nella preistoria. Al distacco dallo strato linguistico precedente si accompagna, dopo il conferimento della cittadinanza e la fine delle autonomie, ancora nel I secolo a.C. anche una certa lentezza nello stringer legami con la metropoli romana che, attraverso il crescente urbanesimo, si legava invece con regioni più meridionali e in particolare con la Campania. Finalmente quando, dopo il sacco di Alarico, Roma ai primi del V secolo d.C. viene ricolonizzata , ecco che i coloni di origine prevalentemente meridionale danno al latino di Roma quella impronta meridionale che conserverà fino al tempo dei papi medicei, e che in parte ha conservato fino ai giorni nostri. […]
A questo isolamento di Firenze hanno condotto non tanto fattori geografici quanto circostanze storiche e principalmente queste due: la prima organizzazione di stato , dopo la caduta dell’Impero Romano, che si è imperniata sul ducato longobardi di Lucca, il quale ha irradiato per tutta o gran parte della Toscana singoli elementi linguistici settentrionali , e, più tardi, la grande via dei pellegrinaggi che, discendendo per la Garfagnana, attraverso Lucca Empoli Siena, Stabiliva un itinerario di grande importanza. L’uno e l’altro fattore avevano come risultato di lasciar da parte Firenze.
Già agli inizi del ‘500 cominciarono a piovere critiche sulla parlata fiorentina, ma la prima vera e propria testimonianza ci giunge da un testo risalente al 1717 del padovano Gerolamo Gigli: egli si scaglia in particolare contro quella che poi, dalle sue stesse parole, sarebbe stata chiamata “gorgia”, e cioè l’aspirazione di alcuni suoni, in particolare della /k/. Egli definisce il Fiorentino come “insaponato”, “sconcio”, “un parlare che scriver non si può”, “una gorgia che ci mette un’antenna attraverso alla gola”. Questo fenomeno linguistico, che deriva anche da una vera e propria esigenza fisica ( è più facile aspirare le lettere che pronunciarle esattamente, la parlata risulta più fluida e morbida), conobbe un’espansione graduale e sempre più veloce a partire dal ‘700, sebbene non raggiunga ogni parte della Toscana (per esempio Grosseto e la Lucchesia).
La parlata toscana, come quelle delle altre regioni, subì inoltre durante il XX secolo alcune trasformazioni per la diffusione della radio e poi soprattutto della televisione. Il modello linguistico fornito dalla televisione veicola formule e pronunce che, inconsapevolmente vengono concepite come più socialmente accettabili, borghesi(accettabilità censuaria). Alcuni esempi di questo fenomeno sono rappresentati dall’uso di codesto invece di cotesto, dagli anni ’60 in poi dalla progressiva scomparsa dello strascicamento delle parole, oppure, negli ultimi quindici anni, dalla scomparsa della zeta toscana: [tsolla], l’esatta pronuncia di zolla, si è trasformata in [dzolla]; lo stesso fenomeno è applicabile alla s.
La Toscana, che riprende la
figura di regione appartata fra l’Appennino tosco-emiliano e il corso del
Tevere, consente una classificazione in aree minori, vista non sotto l’aspetto
di caratteri autonomi attivi, ma piuttosto secondo le influenze esterne che in
parte riescono ad affermarsi contro il suo intrinseco isolamento. Queste
subregioni sono quattro. Quella orientale si trova ad occidente del Tevere e
va, a debita distanza dal fiume da Arezzo sino a Chiusi. Essa ha contatti o
subisce influenze comuni ai dialetti dell’Umbria nord-occidentale. La seconda
subregione è quella meridionale soprattutto a mezzogiorno del monte Amiata:
essa ha subito alcuni degli influssi meridionali che si erano imposti nel
Lazio. La terza è l’occidentale livornese pisana lucchese, e mostra legami
liguri. Immediatamente a settentrione, essa si continua nell’area ancora
toscana della Versilia fino a Massa, mentre da Carrara in poi, per tutta la
Lumigiana, si ha un territorio linguisticamente emiliano. La quarta subregione
è quella (centrale) che comprende il toscano più puro e insieme più bello, e
cioè Siena e Firenze, fra le quali attribuiremo la bellezza piuttosto a Siena e
la purezza a Firenze; proprio Firenze è l’area che è stata meno raggiunta da
caratteri non genuinamente toscani.
I caratteri fondamentali
dei dialetti toscani sono quattro:
a) Sono i soli in Italia ad ignorare ed ad aver ignorato la metafonia (o compenso qualitativo) di qualsiasi tipo; estranei ai dialetti toscani sono rapporti come capello-capilli sotto l’influenza di una i finale che si indeboliva;
b) Le consonanti occlusive sorde in posizione intervocalica tendono a spirantizzarsi (in certi casi a dileguare);
c) La finale del latino volgare –ARIU è reso con –AIO contro i tipi -ARO o –ERO delle altre regioni;
d) Il gruppo RV è reso con RB ( come LV con LB): per esempio, il latino nervus diventa nerbo, il latino Ilva diventa Elba.
A sua volta il dialetto fiorentino ha ulteriori caratteri particolari:
a. Il passaggio ad un'articolazione velare della t intervocalica in posizione postonica: così andaho per <<andato>>;
b. Il mantenimento del colorito I e U davanti ai gruppi di N più consonante gutturale come in mungo, lingua, sottratti al passaggio in mongo, lengua normale in tutte le altre aree;
c. Il passaggio di –AR- non accentato in –ER- come nei futuri loderò,amerò;
d.
Il mantenimento delle consonanti semplici dopo
l’accento in parole sdrucciole, che nelle altre aree tendono invece al
raddoppiamento, per esempio Africa,
sabato di fronte a Africa, sabbato.
Nonostante questo isolamento, i
primi testi scritti fiorentini, quali sono stati illustrati soprattutto per
merito di Alfredo Schiaffini e Arrigo Castellani sono lontani da una stabilità
morfologica e mostrano frequenti influenze esterne, quasi fossero stati
dominati, i primi scribi, da un complesso di inferiorità verso i centri vicini:
metteno, disseno provengono dalle
aree occidentali al posto dei normali mettono,
disser. Anche le forme fiorentine Dio,
mio, bue presuppongono modelli toscano-meridionali nei quali le forme
dittongate dieo, mieo, bueo, erano
accentate sul primo elemento del dittongo: dìeo,mìeo,bùeo
Nel gruppo occidentale hanno risalto le forme con R semplice invece che doppia come in tera, per <<terra>>, un fenomeno che non è però sconosciuto nel resto della Toscana; le SS sorde al posto delle ZZ nei tipi terasso, crossa, passa; così le S stanno al porto delle Z corrispondenti nei casi di orso, per <<orzo>>, calsa, alsare, cansone.il fatto che questa pronuncia delle affricate fosse collegata con regioni sia pure viine ma estranee alla Toscana, ha determinato correzioni ingiustificate come polzo, penzare.Analoga correzione ingiustificata è data per il lucchese dai tipi fornaglio per <<fornaio>>. Altre forme anomale rispetto al fiorentino si trovano nei testi medievali dell’area in questione. Dante rimprovera ai Pisani nel De vulgari eloquentia la sostituzione della Z con S (di cui si è detto) e la desinenza della terza plurale del passato remoto in –onno (che è però caratteristica di tutta la regione): <<Bène andonno li fanti da Fiorensa per Pisa>>. Il toscano occidentale infine si è sovrapposto al tempo della espansione marinara di Pisa in Corsica e ha dato un impronta sua al còrso detto <<cismontano>>.
Nell’area meridionale compaiono, soprattutto nei testi antichi le forme <<non fiorentine>> del tipo fameglia e fongo. Accanto ad essi si hanno esempi di passaggio di –er- atono ad –ar- (vendare) di palatalizzazione davanti ad I del tipo di anegli per <<anelli>> di contrazione dei dittonghi per cui si scrive insime, Orvito. Alterazioni isolate –che hanno anch’esse riscontro in quasi tutta la Toscana sono gomito, cèndare per <<gomito>>, <<cenere>>. Esse possono essere una presa di posizione contro una presunta assimilazione laziale del tipo di quanno, rispetto al corretto quando. Ai senesi che si comportano ancora <<meridionalmente>>, Dante rimprovera perciò la frase <<onche renegata avesse io Siena>>: la forma fiorentina sarebbe stata unche.
Caratteri tipici dell’area orientale sono :
a. La pronuncia palatalizzata di come in bäco, cäsa, pagliäo;
b. La metatesi di tipo emiliano in armette invece di rimette, arfucilläre invece di rifocillare;
c. Il tardivo arrivo della dittongazione fiorentina provato dal fatto che essa colpisce anche puoco, cuosa, che in fiorentino appaiono invece intatti, in quanto il passaggio di AU a O posteriore all’affermazione del dittongo UO da O aperta.
OSSERVAZIONI SUI FENOMENI FONETICI
E MORFOLOGICI DI MAGGIOR RILIEVO DEL DIALETTO FIORENTINO:
FENOMENI
GENERALI:
·
La paragoge:
Il toscano, come del resto l’italiano, non ama particolarmente le forma tronche o quei termini stranieri che finiscono in consonante. Nel momento in cui ci si trova davanti a tali forme, è solito aggiungere in fondo alla parola tronca, che termina per vocale, una /e/, detta epitetica, che rende più facile la pronuncia. Esempi come nòe (no), sie (si), giùe (giù), sùe (su), si trovano nel contado ancora frequentemente. Per quelle parole, soprattutto straniere, che invece terminano per consonante preceduta da vocale, di norma il toscano, oltre ad aggiungere una /e/ epitetica, raddoppia anche la consonante finale: sudde (sud), barre (bar), àlcolle (alcool), làpisse (lapis). Le parole straniere che terminano con una consonante preceduta da altra consonante prendono solo la /e/ epitetica: norde (nord), sporte (sport).
· La metatesi:
Con metatesi di definisce quel fenomeno per il quale alcuni suoni cambiano posto nella catena parlata. Talvolta tele termine viene riferito solo ai casi in cui i suoni interessati dal fenomeno sono distanti, mentre si usa il termine “interversione” se essi sono in contatto.
Tale fenomeno è tutt’ora vivo nella zona d’inchiesta, benché limitato a generazioni precedenti. Ancora si possono sentire comunemente forme quali: trecioli (cetrioli), adoprare (adoperare), padule (palude), arale (alare); anche la metatesi di /r/ postconsonantica di una seconda sillaba di una data parola si aggrega al gruppo consonantico iniziale, oppure alla prima consonante della parola: drento (dentro), strupo (stupro), drètho (dietro). Infine /r/ preconsonantica si unisce alla consonante precedente nelle forme seguenti: grillanda (ghirlanda), tremotho (terremoto).
· L’epentesi
Spesso in un gruppo preconsonantico (in particolare occlusiva velare sonora seguita da -r-)
Difficile da pronunciare o non molto comune, si tende ad inserire una vocale al fine di renderlo più articolabile: pìghero (pigro), àghero (agro), màghero (magro).
·
L’apocope E’
interessante notare come le forme apocopate si riscontrino quasi esclusivamente
in proverbi o modi di dire o sintagmi più o meno fissi, sintomo questo di un
antico fenomeno rimasto ormai fossilizzato esclusivamente in una di quelle
vecchie espressioni quali: can de’
percorai, orcin di sudicio, pan di ramerino, gran pesto, fa buon cesto, in men
che non si dica, a coglion che un se ne avvegga, una carda e una fredda.
·
La
dissimilazione:
In alcuni casi c’è la tendenza a differenziare gli stessi suoni che si ripetono all’interno di una parola. Ciò vale soprattutto per le liquide: pìllora (pillola), termine che indica i sassi tordi di fiume.
·
Raddoppiamento
fotosintattico esteso all’interno di parola:
La forma verbale adoprare , con raddoppiamento dovuto alla particella latina –AD, è molto comune, e si giustifica forse come raddoppiamento dovuto alla preposizione a sentito in
a- doprare.
VOCALISMO[1]:
· Trattamento della /e./ e di /o./:
a) /e/ protonica > /i/, /o./ > /u/
E’ nota la chiusura /e/ protonica > /i/, /o./ > /u/: tribbiano (trebbiano), cistellina (cestellina), malidetto (maledetto), nissuno (nessuno), buìna (bovina), culizione (colazione). Di particolare interesse appare il fenomeno opposto che parrebbe doversi attribuire a un moto ipercorrettivo (vedi mutazione spontanea di /i/)
b) Epentesi: vedi Fenomeni generali
·
Trattamento della
/i:/
Mutazione spontanea. Tale fenomeno è molto riscontrato: avvelìre (avvilire), pelluccare (piluccare), prencipiare (principiare), mesure (misure). Di questo fenomeno sarebbe interessante riuscire a capire perché si manifesti in certune parole e non in altre, o quale sia la sua vastità e la sua origine.
CONSONANTISMO:
·
Assordimento di
/b/:
E’ stato riscontrato in alcune persone la forma ipercorretta ottopre per ottobre. Il termine con la sorda non è attestato né per la Toscana, né per nessuna altra parte d’Italia. Si tratta dunque di un fatto singolarissimo che richiede spiegazioni.
· Trattamento di /d/ intervocalico:
Di norma, il contado fiorentino di là dell’Arno, il suono latino rimane invariato, al massimo si indebolisce dando esito ad un ¶. In alcuni casi come: mèrica ( erba medica), korèsto (codesto), si ha un passaggio d > r attestato tutt’oggi.
· Trattamento di /l/:
a) polarizzazione di /l/ preconsonantico
Oltre al cambio /l/ > /r/ che /l/ preconsonantico subisce nella magior parte d’Italia, la Toscana conosce un’altra soluzione, quella di /l’/ palatizzato > /j/; il quale, per essere molto breve, produce allungamento della consonante che segue. Nel contado fiorentino il fenomeno è quasi del tutto scomparso, fatta eccezione per le campagne a sud di Firenze per bocca di persone molto anziane: sòjggo (solco), còjttro (coltro), sojddo (soldo), kaikkàgno (calcagno).
b) assimilazione progressiva di /j/ + occlusiva
Questo sviluppo, oggi ristretto a regioni a sud della Toscana, interessò nel passato anche
la nostra regione. Lo dimostrano tracce conservate nel mondo rustico, come:
sòggo >
sòjggo > sòl’go >
sòlgo > sòlko > sulcum
c) velarizzazione di /l/ davanti a /t/
Unica attestazione di velarizzazione di /l/ davanti a /t/ è la forma ùthimo (ultimo)
·
Trattamento di
/m/
/-m-/ intervocalico
In qualche caso in posizione intervocalica si verifica il raddoppio di /-m-/ intervocalico:
fummo (fumo), fumma (egli fumma), cammino (camino). Il fenomeno è riscontrabile in Dante e in antichi documenti toscani.
· Trattamento di /r/
a) ipercorrezione di /-r-/ intervocalico
il toscano rustico sostituisce /l/ con /r/: àlido (arido). I parlanti consci di questo fatto, per
ipercorrettismo sostituiscono /l/ a /r/ in posizione intervocalica e nelle forme suffissali:
la linghiera (la ringhiera), polmonale (polmonare).
b) degeminazione di doppio /r/
la degeminazione è un fenomeno tipico del Settentrione. Può sembrate strano ritrovarla,
anche se solo limitata al gruppo /-rr-/, anche in Toscana; secondo alcune teorie di
Franceschi. La spiegazione a tale fenomeno è da ricercarsi nel sostrato estrusco. Le forme
più comuni di questo fenomeno, riscontrato di solito nelle persone anziane provenienti dal
Chianti sono: la thèra (la terra), la mara (la marra), la thòre (la torre).
·
Trattamento di
/-t-/ intervocalico
Nella maggior parte della Toscana /-t-/ in posizione debole subisce lo stesso tipo di
aspirazione che ha colpito anche /-k-/. Il fenomeno ha la stessa forza in tutti i territori, ma
si può avere oscillazione tra /t/ aspirata e una fricativa velare sorda (h). Nel contado
fiorentino si riscontrano in alternanza entrambe le forme: ditho (dito), pratho (prato), fatha
(fata) ma mangiaho (mangiato), bevutho (bevuto), andaho (andato), soldatho (soldato)
fatinaha (farinata) ecc.
·
Trattamento di
/v/:
a) Labilità di /-v-/ intervocalico
In tutto il contado fiorentino si nota una forte tendenza alla caduta della /v/ in posizione
debole. Fenomeno riscontrabile soprattutto nelle persone di una certa età, ma, benché
meno accentuato, anche tra i giovani. Tra i moltissimi esempi i più comuni sono:
sangioèse (sangiovese), ulìa (uliva), nèe (neve), trae (trave), fàa (fava). Tale fenomeno
colpisce anche le forme verbali: amào (amavo), dormìo (dormivo), beveo (bevevo) ecc.
b) Casi particolari di trattamento di /v/
Spesso in Toscana, ma anche in gran parte della penisola, /v/, trovandosi di fronte
Ad una vocale velare, si trasforma facilmente in /g/: nùgolo (nuvolo), rannugolare
(rannuvolare), gòrpe (volpe). Traccia dell’antica situazione di rafforzamento di /v/ a /b/
in posizione iniziale (betacismo) si riscontra in boce (voce), bociare (vociare), bocìo
(vocìo)
·
Trattamento di
/GL/[2]
a) /GL/ iniziale
In Toscana, come nell’Italia centrale, questo nesso è passato al suono graficamente scritto
/ghi/: ghiaccio, ghiaia, ghianda ecc. Ma nel contado fiorentino si può notare che
l’occlusiva palatale di questo suono si è talvolta avvicinata ad un’occlusiva dentale /dj/,
riscontrabile in forme quali: i ddjaccio (il ghiaccio), la djaja (la ghiaia), djacciare
(ghiacciare), i ddjacciolo (il ghiacciolo)
c) /-GL-/ intervocalico
A Firenze normalmente /-GL-/ è passato a /-gghi-/: vegghiare (vigilare), mugghiare
(mugolare). Ma al momento in cui nel contado fiorentino /l’/ diventa /-gghi-/ (vedi
rugghiare, rugliare), c’è stata confusione tra /-gghi-/ derivante da /l’/ e /-gghi-/ derivante
da /-GL-/; quindi si sono avute forma come mugliare, vegliare.
· Trattamento di /-mm-/
mb > mm
In quelle zone d’Italia centro-meridionale dove /-mb-/ e /-nd-/ si assimilano a /-mm-/ e /-nn-/
Si nota il verificarsi di un fenomeni di ipercorrezione che fa sì che /-mm-/ e /-nn-/ passino a
/-mb-/ e /-nd-/. Un caso passato nella lingua nazionale è gambero < cammarus (grecismo).
Nella zona di inchiesta si riscontrano forme quali: bòmbere (vomere), prezzembolo
(prezzemolo), sèmbola (semola), kòhombero (cocomero), kàmbera (camera), cèndere (cenere). Si tratta sempre di parole proparossitone che presuppongono il raddoppiamento di
/-m-/ e /-n-/ nella sillaba postonica dei proparossitoni. Questo potrebbe confermare il dubbio di Franceschi, cioè che in queste forme toscane possa leggersi piuttosto un’altra origine, quella lombarda. Per quanto riguarda la forma grèmbio, si pensa risalga ad un incrocio tra gremium e lembo. Sempre a tale fenomeno sono riconducibili le forme grèmbo e grembjale.
Da notare la differenze di significato tra grembjale (rustico) e grembjule (civile, dell’artigiano), e tra grembjalino (grembiule con il quale una volta si vestivano i bambini), e grembjulino ( spolverino che usano i bambini per andare a scuola)
·
Trattamento del
nesso /ng/ davanti a vocale paratale:
Nella lingua letteraria del Medioevo si trovano insieme forme quali: mugnere-mungere,
piangere-piangere, spengere-spengere: il
passaggio /ng/ >
/gn/ è il risultato che si ha nei proparossitoni. La forma con /-gn-/ era un
tempo caratteristica della lingua antica di Firenze: nel contado si sentono
forme quali: spegnere, spignere,
dipignere, mugnere, piagnere, strignere, sospignere, tignere.
· Palatizzazione di /li/ > /gli/
Nell’italiano ufficiale, la palatizzazione di –lli è limitata alla posizione davanti vocale:
begl’occhi, quegl’altri.
ALTRE PARTICOLARITA’
Quanto al plurale –li che rientra nella serie che proviene da ILLI, si sa che nell’italiano moderno non presenta palatalizzazione, per motivi di opposizione al dativo:”gli ho dato” ma “li ho presi”. Nel contado invece esiste solo gli, in entrambi i casi.
Nei giovani si nota la correzione di gli in li che viene estesa anche al dativo; li vedo, li parlo.
L’articolo determinativo maschile singolare “Il” si presenta
nella forma “I’”, che presenta cioè dileguo della /l/ e il raddoppio della
consonante successiva. Es. i’ccane.
Il dileguo si presenta anche con
alcune preposizioni che precedono l’articolo. Es.co’ i’bbabbo
Da’i’bbabbo
Esso si distingue proprio in virtù del raddoppio
dall’articolo plurale: I’bbicchiere
I bicchieri
L’articolo plurale i si può
talvolta trovare nella forma e’.
Quanto all’articolo maschile plurale, ho rilevato in Val D’Elsa la pronuncia 1’okki per “gli occhi”, che si accorda a quella toscana occidentale.
Il Pronome.
a) Forme sogg. Proclitiche, 3°pers.sing
Come forma proclitica il toscano antico usava per il
maschile le forme el, ei, e. Nel contado fiorentino, fra le parlate popolari,
ritroviamo le forme gli e e’: gli ha ttirato vento tutta la notte, a
mmomnti e’torna. Al femminile come nel toscano antico troviamo la: innanzi ke la vada a lletto la guardi di
ffinì ddi kkucire, prima ke la mangi gli ci vorrà un’ora.
b) Forme
soggettive proclitiche, terza persona plurale.
Già negli antichi testi toscani ci troviamo di fronte a
forme quali: gli, ei, e’, i. nel
contado si usa ancora e’ per il maschile e le
per il femminile: e’vanno ke e’paian unti! E’ son tutti pannicelli
hardi! Le
son delle belle donne!
c) Il pronome neutro.
Di norma l’italiano non fa
uso di una particolare forma per il pronome personale neutro, che di solito si
identifica con il maschile egli. Nel contado si notano frequentemente forme
quali: gli è piovuto tutta la notte, gli
è ll’ora di falla finita!,gli è sempre la solita musiha!.Spesso il neutro
viene espresso anche con il pronome femminile la (ELLA); l’impiego di tale pronome si può spiegare sottintendendo
cosa. Queste forme sono ancora vive
ed usatissime nel linguaggio del contado:
la va, ma la un trotta!, la’unn è kkorpa mia!, la mi skappa!
d)
Pronome soggettivo atono
ridondante.
Frequente e normale è
l’uso del pronome personale, alla terza persona, accanto al soggetto già
espresso: nessuno e’gli è bravo a fallo,
i ttu babbo e’gli ha raGone, la stalla l’era votha..
e)
Le terze persone plurali èglino, èlleno.
L’italiano del medioevo era solito usar i pronomi “essi, esse, elli,
elle”; da questi due ultimi,
influenzati dalla desinenza verbale di 3° plur. (“elli cantano”), si sono avute
forme come eglino, e elleno .Eglino, èlleno non appartengono
più alla lingua viva. Ho constatato però che tali forme sono tuttora vive nel
contado, in informatori di una certa età. Vengono soprattutto impiegate nelle
forme interrogative: ikke fa èglino? Ikke
fa elleno?.L’intera forma verbale, completa di pronome posposto, viene
trasformata dalla 3° alla 6° persona
con l’aggiunta del suffisso –no alla
forma pronominale. In sostanza si può parlare di un’epentesi della forma
pronominale entro quella verbale: ikkè
mang’eglino?, in do’va èglino? In do’va elleno?, ecc. I meno anziani invece
dicono: ikke mangiano? . ikke fanno?, in
do’ vanno?, ecc. Si tratta a guardar bene dello stesso fenomeno che si riscontra in ènno (sono) 6°pers.del presente del verbo essere.La forma ènno si produce infatti aggiungendo la
desinenza della 6° alla forma della 3°persona, in analogia a “canta”,“cantano”
La forma “sono” di norma è ristretta alla 1°persona. Oggi i giovani introducono
“sono” (6° pers.) per influsso scolastico.
Com’è noto in Italia si danno numerose forme di neutro plurale in –a in continuazione delle forme latine: uovo-uova, ginocchio-ginocchia, braccio-braccia. Ma alle forme note alla lingua si aggiungono parecchie della parlata rustica del contado fiorentino. Questo tipo di plurale è stato esteso anche a parole che in latino potevano essere sia neutre che maschili. Alcuni casi sono ben noti, come: “via delle carra”, “staia”, “sacca”, ecc. Meno note sono forme di ambito più ristretto alla campagna. A questi ultimi dovette appartenere fastella come plurale di fastello; oggi tuttavia le cose stanno altrimenti giacchè fastella è sentito come il plurale di fastella, avendo il fastello il plurale i fastelli
Questo tipo di plurale identico al singolare di genere femminile è peraltro frequente in questo parlato: sementa, giumella, zanella, fossetta, maneggia, corbella, muriccia. Questi esempi pongono un problema interessante: quali sono i motivi che di volta in volta hanno annullato il criterio morfologicamente rilevante della distinzione di numero? A parte i casi in cui un neutro latino in –a è usato etimologicamente al plurale (come “un lenzuolo, le lenzuola”). In altri casi il plurale neutro conservato anche come plurale è diventato morfologicamente anche un singolare collettivo (“la legna, le legna”); u questo modello si sarà formato da le anche la muriccia. […]
Da notare che all’antico plurale neutro “le dita” della
lingua il parlato rustico risponde con i
dithi; la forma dita è rimasta solo nell’unità di misura,
du’ditha.
L’interrogazione è di frequente introdotta da una particella o., premessa al pronome personale di 2° persona: o i kke ttu ffai?.Altra e più usata particella interrogativa di uso pleonastico è che ke tti senti male?. La particella davanti all’interrogazione non è obbligatoria ma normale. Un particolare uso è quello nelle domande retoriche alle qualin non ci si aspetta risposta.
Nei casi privi di particelle interrogative òla frase è
denotata come interrogativa solo dall’intonazione. Questa struttura
dichiarativa è stata chiaramente sostituita a quella più antica in cui (come
tutt’ora nel francese) il carattere interrogativo viene indicato dalla proposizione del pronome personal. Tale
struttura vive ancora nel parlare delle persone più anziane del contado. La
vecchia generazione conosceva formule interrogativenon introdotte da particella
ma denotate dalla inversione del soggetto : ke
ffu hu?, indo’va hu?
a) Il suffisso –ULUS (-ulus).
Frequente nel diminuitivo, in Toscana si è generalizzato a molti vocaboli di cui si è perso l’originario valore: aratolo=aratro. I casi più frequenti sono quelli di nomi di animaletti quali: ràgnolo, formìhola. Non è chiaro se konigliolo (coniglio) debba accostarsi a questi.
b) Però.
Com’è noto “però” viene da PER HOC “perciò”, passando solo più tardi ad una funzione avversativa attraverso una fase intermedia “con tutto ciò >nondimeno”; tale funzione si nota già in Dante (Inf., 33,19). Questa funzione che si è imposta come normale nella lingua d’oggi (tanto che la maestra elementare considera grave errore unire insieme “ma” e “però”) non ha tuttavia cancellato l’antica funzione, che sopravvive nel parlare dei vecchi, ma anche dei giovani. Tale funzione è identificata innanzitutto dall’intonazione e poi dalla locuzione fissa in cui si presenta che è, e pperò.
La difficoltà nella distinzione tra lingua e dialetto è particolarmente notevole nel caso del lessico. Fonetica e morfologia sono state infatti incanalate da secoli in schemi normativi più o meno rigidi: contravvenire a questi dicendo , secondo il tipo vernacolare del fiorentino odierno, i ffoho o la mi disse equivale a mettersi esplicitamente fuori della lingua nazionale. Ma nel campo del lessico una tale distinzione non è sempre facile: fattolo per <<frantoio>> e midolla per <<mollica>>
sono parole riportate dai vocabolari italiani, insieme al rustico redo <<vitello piccolo>> (da herede) che è entrato anche nella poesia del Pascoli e del D’Annunzio. Si tratta , come nel primo caso, di termini che hanno una tradizione scritta antica, anche se sono rimasti soverchiati nell'uso letterario di un’altra parola; oppure di voci tecniche o espressive che possono venire usate anche in lignua o perché designano con maggiore evidenza e semplicità.
Riportiamo alcuni significativi esempi di vocaboli mugellesi di uso corrente
· Abbozzala!: smettila!
· Acchiocciolarsi: rannicchiarsi
· Baghero: magro
· Boccalona: pettegola
· Bociare: vociare
· Bofonchiare: borbottare
· Bona!: forma di saluto
· Briaco: ubriaco
· Bronzicare: borbottare
·
Bruciare: scottare
· Buccole: orecchini
· Chiappe: glutei
· Chiorbo: mezzo cieco, miope
· Ciancicare: toccare
· Cincischiare: temporeggiare facendo cose inutili
· Corpo: pancia
· Di’cche sa? Di nulla!: esclamazione denigratoria
· Fogo: l’andare attraverso di un cibo.
· Frinza: ruga
· Gattoni: orecchioni
· Gli è di mangiare: è uno d’appetito.
· Gli è di nulla! Gli è di per ridere!: è proprio un bel tipo!
· Gorpone: mangione
· Imbecherare: ingannare
· Ingrippare:1) salire 2) inceppare
· Inticcherito: irrigidito, stecchito
· Ire, iti: andare, andati
· Ma ‘ndò ttu vvai?: cosa credi di fare?
· Minia: botta
· Occhio pio: occhiolino
· Pezzola: fazzoletto per il capo
· Pistolotto: brontolata
· Pottone: uno che si dà molte arie, ostenta quello che ha
· Pulendo: polenta
· Pulendona: persona grossa persona grossa e impacciata.
· Qualo: quale
· Ragionare: parlare, conversare
· Scaciola: di nessun valore
· Scocciare l’ova: rompere le uova
· Sguincio: rammollito, vecchio
· Succiato: risucchiato, rifinito
· Taccagne: magagne
· Trae: trascina
· T’ha’visuccio: hai la faccia sciupata, pallida
Dopo uno studio teorico sulle caratteristiche della parlata del contado fiorentino è necessario applicare le nostre conoscenze a livello pratico.
Se vernacoli e dialetti risentono ancora oggi della multiculturalità del mondo antico, si capisce ancora di più come il nostro campionario possa essere ancor più ristretto in quanto, a causa dell’avvento della radio prima, e poi della televisione, sono avvenuti mutamenti fonetici e sintattici sempre più profondi. A questo punto diventa indispensabile scegliere i propri metodi di ricerca indirizzandosi cioè verso le fonti più attendibili: le generazioni precedenti, i proverbi e i modi di dire.
LA RICERCA SUL CAMPO:LE INTERVISTE
Per procedere con le interviste di cui sotto abbiamo consultato…. In quanto la ricerca in campo linguistico richiede particolari tecniche per l’analisi diretta della parlata. Il nostro problema era quello di apprendere un metodo che ci consentisse di ricavare dall’informatore particolari forme dialettali che possono venire in mente solo per associazione di idee: abbiamo verificato che infatti domande esplicitamente riguardanti il dialetto (“Si ricorda qualche proverbio che adesso non viene più detto? Si ricorda parole dialettali non più usate?”), imbarazzano e bloccano l’informatore, che
1) non darà le informazioni richieste
2) non parlerà naturalmente, sentendosi sotto esame
compromettendo l’intervista.
C’era dunque bisogno di una tecnica precisa, che abbiamo ricavato dal seguente testo.
TECNICHE D’INTERVISTA
Vi è il metodo più comune è più sbagliato, che è quello di matrice giornalistica, usato per esempio da molti intervistatori televisivi: si chiedono <<spiegazioni>> e <<opinioni>>spesso suggerendo addirittura la risposta. Caso tipico: festa di paese (Carnevale) e gruppo di giovani in costume che viene intervistato dallo zelante regista televisivo:
<<Perché fate
questa festa?>>
<<Mah… è un po’
per tradizione in questo paese.>>
<<Sì, ma per
voi, per la gente, che la fa, che significato ha?>>
<<Mah, non
saprei, provi a chiedere a don..(il prete) che ha studiato queste cose.>>
<<Sì, sì, ma questa festa avrà un significato
propiziatorio, no?>>
<<Beh, ecco….propiziatorio…non saprei proprio>>
E a questo punto il deluso intervistatore passava il microfono al prete, che eruditamente gli spiegava le origini storiche della festa.
Questo è il modo più tipicamente sbagliato di condurre un’intervista. Il ricercatore richiede all’informatore delle deduzioni e traduzioni logico/razionali di quello che sta facendo e sui due piedi quello non è naturalmente in grado di dargliele; in questo modo il ricercatore tenta di ottenere dall’informatore quelle sintesi che dovrebbe operare; peggio ancora, quando si accorge che l’informatore proprio non sta al gioco tenta addirittura di <<suggerirgli>> delle risposte di comodo (secondo quel modo del tutto convenzionale e cretino, poi, per cui la festa è comunque “propiziatoria”, la fiaba è “fantastica”, il canto è “conviviale”).
Vi è poi un modo meno insensato di condurre l’intervista: è quello di ottenere dall’informatore dei dati nudi e crudi da inserire in uno schema precostituito. Il ricercatore, a torto o a ragione, ritiene di essere già in possesso del “sistema” che lo interessa; l’informatore gli serve esclusivamente per riempire le caselle vuote del suo cruciverba.
L’informatore viene intervistato come puro “deposito di dati”; il ricercatore che segue questo metodo normalmente accoglie i dati che gli tornano e scarta quelli che non gli servono;: o che contraddirebbero il suo sistema precostituito. L’esempio più estremo di questo modo di procedere è costituito probabilmente dai “questionari d’inchiesta”, in cui la realtà da indagare viene precedentemente scomposta a tavolino in schemi che vengono tradotti in formulari fissi. L’informatore ha una serie di risposte “obbligate” da uno schema rigido.
Vi è la tal usanza? Vi era in passato? In che anno è stata praticata per l’ultima volta? Ci si metteva in maschera? Etc. Questo tipo di intervista “chiusa” che presuppone un sistema precostituito è quello attualmente più usato dai ricercatori dell’aria accademica. Il suo limite è che quanto non è previsto dal formulario rimane fuori:di qui il tentativo di operare con questionari sempre più ampi e complessi per abbracciare realtà che si dimostreranno, comunque, inevitabilmente e sempre, ancora più ampie e complesse dei questionari stessi. […]
Un terzo tipo di metodo è costituito dall’intervista “libera”. L’intervista libera consiste nel mettere momentaneamente tra parentesi le proprie ipotesi di lavoro, e parlare <<conversativamente>>con l’informatore, dopo aver chiarito molto precisamente con quest’ultimo gli argomenti e i motivi del nostro interesse. Le nostre domande, più che ottenere risposte definitive sono rivolte a stimolareal massimo la comunicatività dell’informatore, a sollecitare la sua capacità di libere associazioni; per questo motivo andranno, in via di massima, evitate le domande di “opinione” che bloccano l’informatore. Davanti alla domanda di opinione, come ben sa ogni ricercatore in qualunque campo, l’interrogato si sente “posto sotto giudizio”, e tenderà pertanto a dare risposte compiute e difensive.Occorre invece fare perno su dati, fatti, memorie. Bisogna in altre parole usare una richiesta di dati per invitare l’interlocutore ad esprimere liberamente associazioni mnemoniche che rivelano inevitabilmente le sue posizioni soggettive in merito all’argomento di cui si discorre.
Facciamo un esempio pratico. Stiamo parlando con un cantore che appartiene a un gruppo di cantori informali (detti spesso, almeno in Italia del nord, una squadra di canto). Ci interessa stabilire il suo grado di interesse per il canto, l’importanza che il canto riveste nelle sue scelte generali.
Domande sbagliate: Le piace cantare? (ovviamente non si può dire altro che sì)
Molto? (imbarazzo. Come si fa a rispondere? Cosa vuol dire quel signore che sta facendo domande con molto?) Ma perché le piace cantare?( come si fa a spiegare? Non si sa mica)cosa significa per lei cantare?( Mah..)
Possibili domande giuste:Vi trovate spesso a cantare? (Tutte le volte che possiamo. Tutti i sabati. No, una volta si cantava di più ma adesso solo qualche volta, in qualche occasione etc) Ma lei e il suo gruppo quante canzoni sapete? All’incirca? ( Tantissime. Quando la serata è buona se si comincia non si finisce più. Tante, ma quelle che vengono fuori son sempre quelle dieci)Si cantava di più una volta o adesso? ( Una volta, perché non c’era più unione; e poi non c’era la televisione. Più o meno lo stesso. Di più adesso, perché c’è più tempo libero per cantare etc).
La richiesta di dati legati all’esperienza personale, rassicura l’informatore, al contrario della richiesta di opinioni che lo disorienta e lo può mettere a disagio.
Ma l’aspetto più notevole di questo tipo di intervista consiste nei messaggiche l’informatore trasmette rispondendo alle domande sui dati.
Paradossalmente, questi <<messaggi>> possono essere tanto più significativi quanto più i dati si discostano dalla realtà effettiva. Un dato esatto è, in linea di massima, un dato, e basta. Un dato alterato costituisce invece quasi sempre una chiave di lettura preziosa, se la si sa usare: chi altera una notizia ha sempre dei motivi, espliciti o inconsci, per alterarla. Comprendere questi motivi ci può portare ad una conoscenza della realtà dell’informatore superiore alla conoscenza ottenuta attraverso la conoscenza ottenuta attraverso la comunicazione di un dato esatto. Per cui, tornando alle domande al nostro immaginario cantore, se quando noi gli chiediamo per esempio quante volte lui si trova a cantare con gli amici ci rispondesse:<<Pochissime volte, perché manca il tempo>>e poi noi scopriamo che quelli si riuniscono a cantare regolarmente almeno una volta alla settimana, vuol dire che l’informatore o <<censura>> la frequenza degli incontri (magari perché la collettività non approva il canto) o che desidererebbe cantare molto di più. E’ anche vero che bisogna sapersi regolare sul fatto che dà inconsciamente le risposte che ritiene facciano piacere al suo intervistatore; e che quest’ultimo, da parte sua, specie se è alle prime armi, dà all’informatore ampi <<messaggi>> che pilotano quest’ultimo sull’informazione gradita.
In questo senso le ricerche condotte da ricercatori inesperti o ideologizzati sono, per esempio, quasi sempre viziate da questo difetto d’origine : l’informatore, quando è preso dal <<piacere>> dell’intervista capisce al volo i messaggi che l’informatore gli manda e risponde di conseguenza.
<<Ma il padrone
vi sfruttava?>>
<<Ma pregando vi
sentivate uniti?>>
<<Ma è contento
di essere emigrato? Non preferirebbe essere rimasto al suo paese? Ma se è
dovuto emigrare, di chi è la colpa?>>
<<Ma era più bella la vita semplice di una volta?>>
Queste sono tipiche domande <<orientative>>, che <<guidano>> l’informatore. Ho sentito casi estremi di registrazioni di interviste in cui il ricercatore risentito con l’informatore che non voleva <<raccogliere>> i suoi messaggi (che il padrone lo sfruttava, o che la preghiera unificava la collettività, o che la vita di una vola era più povera ma più bella) finiva per discutere vivamente con l’informatore stesso.
Ma anche quando il ricercatore non è così goffo, è inevitabile che l’informatore, quando e se ha accettato il <<gioco>> dell’intervista, e tutta la dinamica di rapporti interpersonali che l’intervista scatena, cerchi si essere <<gradito>> al ricercatore, di dargli le risposte che ritiene <<giuste>>, ed è altrettanto inevitabile che anche il più esperto ricercatore trasmetta inconsciamente dei messaggi - verbali, mimici, espressivi - su quello che gli piacerebbe sentire dall’informatore. Ma ci sono altri elementi che intervengono nella comunicazione, condizionando l’informatore, vanità, rimozioni, censure, pudori, sono i più comuni.
Sulla base di questa documentazione abbiamo proceduto nel seguente modo: abbiamo fatto in modo che l’informatore ritenesse più importante ai fini dell’intervista il contenuto, e non la forma, dei suoi discorsi. In questo si evita che l’intervistato possa sentirsi “sotto giudizio”, e quindi correggere il suo modo di parlare.
Abbiamo premesso che il nostro interesse era rivolto ad usi e costumi toscani, domandando, a seconda del soggetto, informazioni su argomenti che potessero risultargli piacevoli.
NOME: Marina Nepumoceni
DATA DI NASCITA: 14-8-1919
LUOGO DI NASCITA: Grezzano (Borgo S.Lorenzo)
LUOGO DI RESIDENZA: Borgo S. Lorenzo
NOME: Anna Banchi
DATA DI NASCITA: 28-10-1921
LUOGO DI NASCITA: Vicchio di M.llo
LUOGO DI RESIDENZA: Firenze
Riportiamo le parti più interessanti delle nostre interviste
·
Lei è andata a
scuola? Eh sie (paragoge)!
· Si ricorda qualcosa di come era la scuola? L’era una scola (dileguo) ,brava, con tre classi, prima, seconda e terza
· E come si trovava? Erano classi di maschi e femmine o solo… Maschi e femmine tutte ‘nsieme
· Quanti eravate più o meno?
Mah, più o meno si sarà stahi (aspirazione /t/ intervocalica) una ventina; bah, e’ si facea (caduta /v/ intervocalica) la prima, seconda e la terza.
·
La scuola era a
Borgo?
Sie (paragoge) , a Grezzano
·
E ci andava a
piedi?
Eh, bisognaa (caduta /v/ intervocalica) a andare a piedi; a piedi, quande c’era la neve, quande c’era la mota, e poi si facea (caduta /v/ intervocalica) le vacanze quande un si potea (caduta /v/ intervocalica) andare, anche tante vacanze di facea. (caduta /v/ intervocalica) Eh, quande nevicaa (caduta /v/ intervocalica) forte chi ci portaa (caduta /v/ intervocalica) lassù a Grazzano, si staa ‘n campagna, capiho (aspirazione /t/ intervocalica).
·
I maestri come
erano?
E maestri…ll’erano (palatizzazione di “gli ”, vedi uso pron. sing maschile) una maestra, staa (caduta /v/ intervocalica) lì…
·
Vi faceva tutte
le meterie?
Tutte le materie facea, (palatizzazione di “gli ”, vedi uso pron. sing) brava
tutt’e tre. Ll’era (palatizzazione di “gli ”, vedi uso pron. sing ) brava
·
E vi dava le
bacchettate?
Diamine, daa (caduta /v/ intervocalica) anche le bacchettahe (aspirazione /t/ intervocalica), eh, ll’aveha (palatizzazione di “gli ”, vedi uso pron. sing maschile) (caduta /v/ intervocalica) la hanna… (aspirazione / k/ )
·
Avavate un po’
paura di lei?
Mah, io no, sai son sempre staha (aspirazione /t/ intervocalica) bona, unn’è che…i più ll’erano (palatizzazione di “gli ”, vedi uso pron.)
i maschiacci
………….
·
Come si svolgeva
la vita di prima? Ad esempio come funzionavano i fidanzamenti, o matrimoni..
Mah, io quand’ero come voi aveo (caduta /v/ intervocalica)
il fidanzato, e poi ci si lasciò, sai ,noi si doveva anda’ (dileguo)a
servizio a Firenze, sicchè, io hassù, (caduta /k/ intervocalica) lui laggiù, e allora fu finiha(aspirazione /t/ intervocalica) lì, e io non mi confondetti più con nessuno, a Firenze. Pe’ (dileguo)niente. E torna’ (dileguo)a Borgo, torna’ (dileguo)a ccasa,(raddoppio della /k/) perché c’er’ (dileguo) i’(dileguo) ppassaggio (raddoppio)della guera (degeminazione di doppio /r/) , sicchè tutti ci rivoleano (caduta /v/ intervocalica)in famiglia, e venivo a BBorgo (raddoppio)dagli inglesi, a lavorare, a porta’ (dileguo) le stagne della benzina..
·
Ma qui a Borgo?
Qui a Borgo, proprio hi ‘ndo(dileguo) c’è le scole, (dileguo) ‘ndo (dileguo) c’è e rammendo, e la biancheria de’ (dileguo)
sordahi, (aspirazione /t/ intervocalica) sicchè io prima andao (caduta /v/ intervocalica)alla benzina, poi la mi’ (dileguo) sorella la (pronome ridondante)mi mise hui, (aspirazione della /k/) steo più
bene hi, (dileguo u) (aspirazione della /k/) capiho (aspirazione /t/ intervocalica), si facea (caduta /v/ intervocalica) i’rammendo, s’era tante lì…
·
E il rammendo,
delle uniformi oppure..
Calzerotti, camice ‘nsomma (dileguo) lavavano e poi si gli metteva i punti pe’ (dileguo) soldati, e ci si stette
parecchino, e poi con la macchina ci riportarono a Grezzano.
·
Questo tutti i
giorni?
Tutt’e giorni, ‘n (dileguo) su e ‘n giù. (dileguo) E po’ (dileguo) dopo e conobbi ‘sto (dileguo) marito sposai, e ll’era (palatizzazione di “gli ”, vedi uso pron.) ‘n (dileguo) una hasa, (aspirazione della /k/)
perché prima c’era stato la guera (degeminazione di doppio /r/) le hase (aspirazione della /k/) ce n’era pohe, sicchè staha (aspirazione /t/ intervocalica) anche du’ (dileguo) famiglie. In un appartamento c’era e’ parenti della mi’ (dileguo) sorella, e ‘n(dileguo) un appartamento c’era un’altra sicchè la mi’ (dileguo) sorella a mangiar i ggiorno,(raddoppio) vai dall’Elvira, dalla mi’ (dileguo) cognata. Andao (caduta /v/ intervocalica)da lei lì a mangiare lì su’ i’ (dileguo) Poggio, e honobbi (aspirazione della /k/) Mario, e da lì mi sposai con lui, , icch’e (raddoppio e dileguo) t’ ha (dileguo) a dire, l’avea (caduta /v/ intervocalica) nov’anni più di me, si vede mi corpì.(polarizzazione di /l/preconsonantico)
·
Dopo quanto vi
siete sposati?
Ni’ 45, dopo du’anni. (dileguo) Nì 48 nascea (caduta /v/ intervocalica) Massimo. Sicchè andetti a sta’(dileguo) con loro, ll’era (palatizzazione di “gli ”, vedi uso pron.) una
famiglia numerosa.
·
Il Matrimonio
com’è stato?
Il matrimonio, bellino, ‘ntelligente, (dileguo) ‘n chiesa, (dileguo) a Grezzano, matrimoni da poeri, (caduta /v/ intervocalica) perché al tempo di guera (degeminazione di doppio /r/) le ‘un c’era nulla nulla nulla, sicchè a mangiare si stette lì in casa e a dormire s’andette a Firenze da una mi’ (dileguo) cognata.
·
Il momento più
bello che ha passato?
I momenti più belli c’ho passato quande ho sposato tutt’e due i figlioli, s’è cominciato a
girare, s’e giraho (aspirazione /t/ intervocalica) tutta l’Italia, samo stahi (aspirazione /t/ intervocalica) ai nordisse (paragoge), a Loreto, samo stahi (aspirazione /t/ intervocalica) a Lourdesse (paragoge), a Svizzera, s’era tranquilli, s’era soli io e i mi’ (dileguo) marito, si staa (caduta /v/ intervocalica) proprio bene.
·
Per le Feste,
tipo Natale o Pasqua cosa facevate?
Mah, si facea (caduta /v/ intervocalica) i’ (dileguo) desinare, ‘n(dileguo) famiglia, poi la sera magari s’andaa (caduta /v/ intervocalica) a ballare..C’era un
Contadino lì, c’avea (caduta /v/ intervocalica) una cucina grande grande, e c’avea(caduta /v/ intervocalica) un organino, e s’andaa (caduta /v/ intervocalica) a ballare
in questa hasa (aspirazione della /k/). Si faceva i’ giorno fino alla sei, e di sera l’undici, mezzanotte, mica di più.
·
E che balli
ballavate?
I’ tango, la polka, i’valze (paragoge). Quande si ballaa (caduta /v/ intervocalica) di giorno s’andaa (caduta /v/ intervocalica) a i’ vvespro (raddoppio) a sera.
·
Per le feste cosa
si cucinava?
E si faceano (caduta /v/ intervocalica) e tortelli, oppure i’ pollo o i honiglioli, (aspirazione della /k/). ‘he s’aveano (caduta /v/ intervocalica) . noi. Si facea (caduta /v/ intervocalica) un po’ di
mangiare diverso da i’ solito, pulenda, baccalà, arringhe, fagioli ceci, minestra, a volte la
domenica i’ brodo e il lesso. I’ pane e la pulenda e si faceano (caduta /v/ intervocalica) a casa, da noi.
ANALISI
E’ da notare come molti fenomeni fonetici e sintattici siano molto più frequenti rispetto ad altri, che nel nostro caso neanche compaiono, e ciò è dovuto alle trasformazioni linguistiche avvenute per i motivi sopra citati. Nella parlata degli intervistati più avanti con gli anni i fenomeni più frequenti risultano:
a. dileguo
b. caduta /v/ intervocalica
c. paragoge
d. aspirazione della /k/
e. aspirazione /t/ intervocalica
f. palatizzazione di “gli”
g. degeminazione di doppio /r/
h. raddoppio
i. ridondanza del pronome.
j. Presenza di alcuni termini tipicamente dialettali (es.”conigliolo”), comunque non importante
k. Polarizzazione di /l/ preconsonantico
Similitudini e modi di dire costituiscono un’ottima fonte in quanto non hanno subito i sostanziali cambiamenti, avvenuti invece al livello fonetico e sintattico nella parlata. Per questo, procedendo nella nostra analisi, è interessante vederne alcuni esempi.
Gli argomenti trattati dalle similitudini sono i più disparati, ma tutti riconducibili agli stessi temi: esigenze corporali,quotidianità del contado fiorentino, stereotipi sociali, episodi rimasti nella memoria popolare e derisioni.
Riportiamo qualche esempio significativo.
SIMILITUDINI
ESIGENZE CORPORALI
·
L’è ppiù
llungo della fame: chi l’ha sofferta, anche per poco, si rende
conto di quanto sembri interminabile
·
E’
mangia quante un tribunale:
si fa riferimento alle ingenti spese che necessitano per un processo
QUOTIDIANITA’ DEL CONTADO
FIORENTINO
·
Leati,
i’ssole ll’è leo: tipica
espressione per invitare qualcuno ad alzarsi dal letto
·
L’è
ssudicio come un baston da ppollaio:
chiaro riferimento alla sporcizia dato che tutti possono ben immaginare come
sia “pulito” il palo su cui vanno a dormire le galline.
·
L’è
ppiegato che pare i’ggobbo di picche:
paragone con l’otto di picche delle carte toscane, detto più comunemente “gobbo
di picche”
·
E’tu sse
come ‘na gallina mugellese:
l’ccent’anni e la dimostra un mese: dicesi delle signore che, pur avendo
raggiunto una certa età, si mantengono ancora molto giovanili
STEREOTIPI SOCIALI
·
E’fanno
come e’ladri di Pisa, i’ggiorno e’letihano, e la sera e’ vanno a rrubà ‘nsieme: unasi comunemente per definire un
comportamento non sempre coerente.
·
Esse’
ppreso pe ‘n americano:
si dice normalmente a quei negozianti o bottegai che ci propinano prezzi molto
alti. Ancora oggi, benché l’America non si più quella di una volta, fare
l’americano, o essere preso per un americano significa “fare lo spaccone”, o
“essere scambiato per uno pieno di soldi”
·
Tu mmi
pari la vecchina dell’aceto:
con tal nome si designano quelle persone di piccola statura, esili, ed in più
anche un po’ gobbe. Forse l’immagine è da ricercarsi in qualche etichetta che
si trovava una volta sulle bottiglie dell’aceto, quando ancora la pubblicità
dei prodotti alimentari, almeno nelle campagne, colpiva molto di più
l’immaginazione
EPISODI RIMASTI NELLA MEMORIA
POPOLARE
·
Tu
sse’diventato come Mannello, tu ffisi e tu sfissi: così vengono definiti coloro che sono
soliti promettere qualcosa a qualcuno, ma poi ci ripensano, e all’ultimo
momento ritrattan tutto
·
Tu ssei
come i’bbambino di Mmei, che mangiaa un pane in pappa: famoso bambino che era sempre cosi
affamato e così grosso da mangiarsi un pane dentro la pappa. Si dice delle
persone che sono solite pubblicizzare la loro mancanza di appetito, ma che in
verità si rimpinzano
·
Te ttu
ffai come Cecco toccami:
qui si fa riferimento a quella storiella popolare in cui una ragazza dice alla
propria mamma: <<Mamma Cecco mi tocca!>> <<Cecco non la
toccare!>> <<Cecco toccami, che la mamma la un vede!>>. Vuole
indicare quelle persone che si lamentano se qualcuno le stuzzica ma non ne
possono fare a meno.
DERISIONI
·
L’è
dduro come le pine verdi:
oltre che a definire una persona dura nell’apprendere, indica in essa una forte
testardaggine
·
T’a’ più
cculo delle nane: ci si
riferisce sempre ad una persona fortunata facendo riferimento al prosperoso
posteriore delle nane (anatre)
·
L’è
ggrasso com’un tordo:
dicesi riferendosi specialmente ai bambini che in tenera età sono grassottelli
·
E’ggli
ha la faccia a ccahaiola:
espressione che mette in evidenza la pessima cera di una persona che per giorni
ha avuto la diarreaù
·
Tu sse’
più bischero che lungo:
indica una persona ingenua e stupida, talvolta per eccessiva bontà
·
E’ va
cche ppar’unto: espressione
che si impiega per denotare la sveltezza o la rapidità nel camminare o nel
correre di determinate persone, con il riferimento a quegli arnesi che si
oliano per meglio scorrere.
·
Ll’è
ccome la novella dello stento:
espressione per definire una situazione che non ha termine, come la novella
“che dura tanto tempo e non finisce mai”.
Quelli che seguono sono alcuni
esempi dei modi di dire del contado fiorentino ancora in uso.
MODI DI DIRE
·
I’ttempo
e’ fa cculaia!
Escalmazione indirizzata verso quelle persone che sono solite portare i
pantaloni a bracaloni per mancanza di
una cintura che li sostenga, oppure perché hanno il sedere piatto, così che
i pantaloni scivolano giù. Dicesi
comunemente anche del tempo, quando il sole, al tramonto, invece di andare giù
pulito, si immerge nelle nubi.
·
A tte e’
ti racconterebbero che Cristo gliu è mmorto di freddo! Espressione indirizzata a quelle persone
che riescono a credere sempre a tutto quello che la gente gli racconta.
·
Ummi in
culo, e’ disse i’Ppitti a i’ggranduca!
Espressione usata rivolgendosi a quelle persone che, quando gli viene posta una
domanda, non danno una risposta chiara, limitandosi a un semplice
<<Uhm…>>. L’espressione trae origine da una storiella popolare in
cui si racconta che il Granduca ospite di Pitti che gli mostrava le bellezze
del suo palazzo non fosse molto attento alle spiegazioni, e rispondesse con un
semplice grugnito. Pitti, accortosi che il re non era per niente
interessato, ma mirava solo ad
impossessarsene, sbottò con questa esclamazione : <<Ummi in culo! Il palazzo l’è mmio, e mme lo tengo
io!>>.
·
Tò!
Piglia e pporta a ccasa!
Esclamazione che si usa per indicare di aver colpito a segno con ujna battuta o
con un rimprovero una persona che, incassato il colpo, si ritira o si zitta
immediatamente.
·
Tirati
su le ciocce/poppe!
Esclamazione per indicare quanto poco aiuto o sollievo possa portare o dare una
cosa, una persona o una situazione
·
E’ttu
vvo’’nsegnare a i’cculo a ccacare! Dicesi di quelle persone che tentano di
dare suggerimenti a chi ne sa più di loro.
·
Verde su
celeste, contadin che ssi riveste!
Modo di dire che mette in evidenza in cattivo gusto di vestirsi dei contadini.
·
Parla
quande piscian le galline!
Dicesi a coloro che intervengono o
parlano sempre fuori luogo. E’ un ammonimento a tacere.
·
Mettisi
di buzzo bono: modo di
dire per designare una persona che si accinge operosamente e con buone
intenzioni a fare qualcosa
·
Va a
ccarte e qquarantotto tutto:
usasi comunemente per designare il rischio di mandare totalmente a monte
qualcosa.
·
Gabbia/Bottega
aperta, uccello morto:
Dicesi a quelle persone che sono solite dimenticarsi la cerniera dei pantaloni
aperta.
·
In
do’ttu vvai , le son cipolle!
Dicesi per indicare una situazione senza via d’uscita, oppure per indicare un
qui pro quo tra due persone.
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Speriamo
che ttu’ sstianti!Tipico
accidente rivolto a coloro che per la loro particolare avarizia ci stanno poco
simpatici augurandogli di scoppiare.
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Dammene
du’ di numero: Dicesi
per indicare il volere di una piccola quantità di qualcosa.
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E’ si
pena più ppoco a ssartatti che a giratti intorno!: espresione offensiva per indicare una
persona molto grassa.
Dialetto: [vc. Dotta, lat. dialécto, dal gr. dialektos “discussione” e poi “particolarità linguistica”, da dialégein “parlare (legein) attraverso (dià)” “discutere”]
sistema linguistico particolare usato in zone geograficamente limitate.
Fenomeno fonetico: attinente ai suoni di una lingua.
Gorgia: “il parlare in gola”- in particolare Gorgia toscana: aspirazione del c duro e d’altre consonanti.
Metafonia: fenomeno fonetico diffuso in molti dialetti che consiste nella chiusura della vocale tonica per influsso 6della vocale (i; u) della sillaba seguente.
Morfologia: studio delle regole che reggono la struttura interna delle parole nella loro formazione e nella loro flessione.
Sintassi: parte della grammatica che contiene le regole di combinazione degli elementi lessicali e significativi, e quindi di formazione delle frasi.
Vernacolo: parlata caratteristica di un’area geografica, affidata quasi esclusivamente alla tradizione orale e che ha assunto, nell’uso plebeo, connotazioni di maggiore vivacità e spontaneità rispetto al dialetto e alla lingua letteraria.
· Lezione di prof. Iardella, Liceo Giotto Ulivi, 20/04/2001
· G. Devoto, G.Giacomelli “I dialetti delle regioni d’Italia”, Sansoni Università, ottobre 1975; dalla Industria Grafica L’impronta SpA-Scandicci-Firenze; per conto di G.C.Sansoni SpA, Firenze.
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H.J.Izzo,
“Tuscan and Etruscan. Te problem of
linguistic substratum influence in central Italy.”, University of Toronto Press, 1972
· C. Cecioni, “La terra, e la s’ha nni’ssangue”, Centro Editoriale Toscano, Firenze 1996